Un’amicizia importante e persino intensa. Uno è il barone russo Alexander von Wrangler, l’altro un connazionale assai più famoso – almeno oggi, et pour cause, trattandosi di uno fra i tre o quattro più grandi scrittori d’ogni tempo: Fëdor Dostoevskij.
Rapporto che nasce in circostanze drammatiche, quando lo scrittore sta per essere giustiziato in Siberia (dove “il peggio era l’abuso di potere e la corruzione all’interno dell’apparato d giustizia”), per un (opinabilissimo) reato legato all’attività politica ma assai modesto rispetto alla gravità della pena capitale, che a Dostoevskij venne risparmiata all’ultimissimo momento, ormai prossimo al plotone di esecuzione (l’abisso delle occorrenze fra causa ed effetto è assai dostoevskiano, a pensarci bene).
Come è noto, lo zar ci ripensò quando ormai era tutto pronto. Il barone era lì come procuratore distrettuale – ne nacque l’amicizia con il febbrile romanziere, negli anni più incline a farsi ospitare dall’altro che non il contrario: “da lui era decisamente sgradevole, con il puzzo tremendo del tabacco nell’ambiente troppo angusto”…
A dar voce al barone è Jan Brokken, scrittore assai a suo agio nel reinventare – con il dovuto rispetto per i materiali “veri” – storie e biografie dall’Europa orientale per lo più nella maniera del romanzo-saggio.
Anche qui, ne “Il giardino dei cosacchi” (Iperborea) Brokken ha svolto un lungo lavoro preparatorio di documentazione; lettere e memorie sparse gli sono servite per intonare una voce narrante plausibile, quella del barone, del quale aveva già scritto in “Anime baltiche” – proprio dai suoi discendenti, lettori di quel libro, è giunta la possibilità di accedere al materiale.
Cui Brokken ha dovuto aggiungere la lettura delle lettere di Dostoevskij e la ipertrofica biografia in cinque volumi di Joseph Frank. L’autore nella narrazione ha cercato di attenersi a una documentabile fattualità e da lì ha ri-fabbricato la psicologia delle due figure. Ma la complessità di una vita assai difficile come quella del gigantesco scrittore emerge senza manierismi e spietata aderenza ai casi: politica, scrittura, vita amorosa.
Il barone capì presto la grandezza dell’amico e molto lo aiutò, anche negli anni in cui Dostoevskij fu preda del gioco e si distaccò da lui. Sembra volerlo risarcire, il primo, lo stesso Brokken, concentrando il racconto più sulla sua vita che su quella dello scrittore. Di cui vien fuori il ritratto di un uomo per il quale (benché sapesse “fingere umiltà in un modo stupefacente”) nulla fu semplice – appassionato, selvatico e fragilissimo, indebolito dall’epilessia.
Le pagine in cui il male si manifesta con violenza abbrutente davanti alla donna amata traducono in immagini incontestabili il suo dramma e la ripugnanza terrorizzata di Marija Dmitrievna, la vedova che lo scrittore amava da sempre – quella prima notte fu fatale, per entrambi.
A Fëdor fu formulata finalmente una diagnosi esatta, e lei non dimenticò mai “gli spasmi, le mascelle serrate, i fiocchi di bava”. Gli parvero i segni della follia. Aveva sempre temuto che non avrebbero potuto essere felici insieme: nessuno avrebbe più potuta smentirla.
Michele Lupo
- Jan Brokken
Il giardino dei Cosacchi
Traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo
Iperborea
404 pagine, 18,50 €