Costruita da sogni impossibili la città per i morti, duplicato sfarzoso di quella dei vivi, vasta altrettanto se non di più.
In questa mattina limpida di agosto, percorriamo i viali in terra battuta della Necropoli della Banditaccia, una delle più estese (all’incirca venti ettari) del mondo antico, immersa nel paesaggio naturale con un sapiente equilibrio che ne ha consentito la conservazione. A dare il senso del mistero e del sacro, basta appena il primo colpo d’occhio d’insieme a questo luogo tanto singolare e questi sentimenti si intensificano man mano che la visita procede, suggerendoci anche un’adeguata compostezza.
Nel corso dei secoli le pratiche etrusche di sepoltura vennero largamente a modificarsi e così subito dopo l’ingresso ci siamo trovati davanti un’esposizione di vasi biconici in pietra, utilizzati in epoca più antica per contenere le ceneri dei defunti ma noi siamo qui soprattutto per introdurci nei tumuli circolari visitabili, un piccolo numero rispetto alle centinaia che spuntano da questo territorio.
Va subito detto che questi panettoni terrosi ricoperti di vegetazione non devono trarre in inganno: non siamo di fronte, o dentro, a delle costruzioni bensì ad ambienti scavati nel manto di tufo che un tempo si stendeva su questo piccolo altipiano. I viali sui quali camminiamo sono in realtà dei corridoi scavati nella roccia e le tombe delle aperture praticate nelle pareti dei corridoi stessi.
Di queste camere funerarie colpisce inevitabilmente la somiglianza con gli ambienti domestici abitati dai vivi: la divisione in stanze, i letti di pietra sui quali adagiare i corpi, gli scranni decorati, la riproduzione fedele, scolpita nel tufo, della travatura interna dei soffitti. A ciascuna tomba è stato attribuito un nome, che si rifà alle sue caratteristiche (dei Capitelli, dei Letti Funebri, del Pilastro…) o al suo scopritore.
La più mirabile è probabilmente la tomba ipogea, dunque di epoca più recente, detta dei Rilievi. Qui le colonne e le pareti sono decorate con rilievi in stucco che hanno mantenuto la colorazione. Distinguiamo, tra i vari elementi, una brocca, un piccone, una spada, un rotolo di cordame, un felino, dei demoni…e nelle nicchie dove venivano deposti i corpi, ecco dei cuscini rossi, realizzati sempre in stucco.
La tomba più bella e meglio conservata diventa peraltro quella che fa traboccare l’inquietudine già in crescita minuto dopo minuto, indistricabilmente intrecciata al godimento culturale ed estetico. Perché tutto in questo luogo, ogni particolare, così come gli oggetti da qui provenienti e custoditi nel museo che visiteremo nel pomeriggio, racconta lo sforzo strenuo e senza speranza, commovente e grottesco, di opporsi alla morte, di superarla.
Le camere funerarie in forma di casa, gli oggetti domestici che le riempivano, i monili, il sarcofago degli sposi, la dea alata, l’inquietante statua in pietra di Charun-Caronte… tutto racconta di questa guerra impossibile e senza pace, dall’esito scontato. Tutto sembra contenere ed esprimere una tensione disperata ed estrema che potrebbe mandare in frantumi ogni oggetto da un momento all’altro.
Prima di ripartire, sfinito dal caldo e dalla fatica, mi distendo su una delle panche in legno della deserta area picnic e mi aggrappo con i sensi e la mente alle chiome degli alberi e al concerto delle cicale che avvolge ogni cosa, riuscendo almeno per qualche minuto a far sì che il mondo e il presente non siano fatti di altro.
Giovanni Granatelli