Che fare di reperti archeologici, opere d’arte e testimonianze culturali di altre civiltà trasferiti, in un passato più o meno lontano, nei musei di quelli che furono Paesi colonialisti? “Restituirli ai Paesi di provenienza”, è la risposta che verrebbe alla mente, in automatico. Ma la faccenda è molto più complessa – e complicata – di quanto si possa immaginare.
La semplificazione, processo a cui il nostro tempo sembra inesorabilmente votato, è da respingere con fermezza per far posto a una riflessione pacata e, soprattutto, approfondita. È questa la strada intrapresa da alcuni musei svizzeri che hanno dato vita all’Iniziativa Benin Svizzera (BIS nella sua sigla inglese). Otto musei hanno passato sotto esame le rispettive collezioni, scoprendo che circa cento oggetti provengono da quello che un tempo fu l’impero del Benin, in un territorio che oggi fa parte della Nigeria.
Luogo di traumi
Uno di questi è il Museo Rietberg di Zurigo, dove, fino al 16 febbraio 2025, si potrà visitare la mostra In dialogo con il Benin: arte, colonialismo, restituzione curata da Josephine Ebiuwa Abbe, Solange Mbanefo (che ne firma anche l’allestimento), Michaela Oberhofer ed Esther Tisa Francini.

Per inquadrare il contesto scelgo di menzionare uno dei libri che più mi hanno colpito quest’anno: Tremore di Teju Cole (in Italia è pubblicato da Einaudi con la traduzione di Gioia Guerzoni). Al centro del romanzo ci sono alcune pagine dedicate proprio alla spedizione punitiva dell’esercito britannico contro Benin City, avvenuta nel febbraio del 1897. Ne riporto poche righe, consigliandovi di leggere il libro per intero:
Dopo la carneficina iniziò il saccheggio. L’assalto al Benin diventò un tentativo di cancellazione culturale. La grande città tu spogliata della sua gloria, in particolare delle opere di significato rituale e artistico. Gli edifici furono bruciati, i luoghi sacri profanati, i palazzi distrutti. Furono sottratti con metodo secoli di opere in avorio e di targhe e sculture in ottone e altre leghe di rame, anche se spesso vengono chiamate semplicemente bronzi. Magnifiche teste di re, di capi importanti e di antenati bini furono ammassate e portate via dai soldati britannici. Non meno di quattromila pezzi vennero prelevati dal Paese ormai distrutto e sparpagliati per il mondo, apparentemente per pagare i costi dell’invasione”.

Poche pagine più avanti l’autore scrive: “ultimamente ho cominciato a vivere il museo stesso come un luogo di traumi continui. Traumi che nascono dalla sensazione di una sorta di colpo di frusta morale: la meticolosità della pratica curatoriale da un lato e quelle pozze scure di sangue umano dall’altro”.
La definizione di museo come luogo di traumi inchioda noi visitatori, in particolare noi europei, eredi di sterminate (è il caso di dire) collezioni messe insieme con violenza e rapacità. Ma i traumi vanno elaborati se vogliamo che non pesino sul presente e determinino il futuro. È proprio per questo che è nata l’Iniziativa Benin Svizzera e lo stesso motivo è alla base della mostra di Zurigo, un’esposizione da visitare con calma, prendendosi tutto il tempo che occorre per approfondire i temi presi in esame, leggere i pannelli di sala (in inglese e in tedesco) e guardare gli oggetti esposti nelle teche, facendo particolare attenzione a quelli accompagnati da didascalie con un bollino rosso con l’indicazione “Restituzione in dialogo”.
Benin City
La riproduzione in gigantografia della foto che vedete poco sopra rende l’idea del cuore di tenebra del colonialismo. L’immagine immortala l’interno del Palazzo Reale di Benin City dopo la distruzione e il saccheggio del 1897. Tre uomini bianchi sono seduti con una parte del bottino letteralmente ai loro piedi. Vediamo lastre come la placca in ottone con rilievo raffigurante Oba Ozolua, realizzata dalla corporazione reale dei fonditori di bronzo. La didascalia recita: “Dono di Eduard von der Heydt; probabilmente saccheggiato dall’esercito britannico nel 1897”.

Tutti gli oggetti esposti – ma anche quelli raffigurati nelle fotografie – hanno una propria storia e una vicenda collezionistica, spesso difficile da ricostruire. Un pannello di sala illustra il viaggio in quattro tappe compiuto da una zanna d’avorio artisticamente lavorata: da Benin City arrivò a Liverpool, passò poi a Londra per approdare infine a Zurigo.
Un’icona a forma di triangolo significa che i primi passaggi in Europa – dopo il saccheggio o il furto dell’oggetto – sono avvenuti in circostanze di vendita non conosciute. Poi sono venuti quelli per via ereditaria, l’acquisto a un’asta nel 1962 e nel 1993 l’arrivo, sempre attraverso acquisto, al Museo Rietberg.
Lunghi giri
Il visitatore conoscerà le vicende del doppio furto di un principe, Odogbo, rappresentato su una piastra che tra le altre, finì tra nelle mani del poeta surrealista Paul Éluard. Ammirerà un braccialetto razziato dal comandante del raid militare britannico, l’ammiraglio Harry Rawson. Sfoglierà, visualizzato su un display, l’album fotografico dello storico dell’arte tedesco Eckart von Sydow che nel 1936 viaggiò a Benin City. Potrà leggere un componimento del poeta nigeriano Niyi Osundare (nato nel 1947, giusto mezzo secolo dopo la spedizione britannica) dal titolo Sul vedere una maschera del Benin in un museo britannico.
Valuterà le reciproche influenze tra l’artigianato locale e quello europeo, ma potrà anche proseguire la visita nella collezione permanente, soffermandosi in particolare sugli oggetti di provenienza africana e domandarsi per quali vie siano giunti in Svizzera (per esempio una figura funeraria o tumba di un artigiano dell’area Sundi, anch’essa entrata al Rietberg come dono del già citato Eduard von der Heydt). Una recente mostra, dal titolo Pathways of Art. How Objects Get to the Museum, aveva per focus proprio quest’aspetto.
A mio parere, però, il visitatore non deve incorrere nemmeno nell’errore opposto, ovvero quello di vedere i manufatti esposti soltanto come oggetto di contesa e di rivendicazione. Quelle qui riunite sono opere di artigianato e spesso d’arte che meritano di essere ammirate anche per il loro valore estetico. È il caso, per esempio, della brocca con coperchio in avorio, un’opera afro-portoghese che testimonia gli scambi tra i due continenti.
Utile all’approfondimento dei temi trattati in mostra è il volume Mobilizing. Benin Heritage in Swiss Museums (edito da Scheidegger & Spiess) che fa da catalogo e insieme strumento per orientarsi nella storia, nella geografia e nella cultura – tutti termini da declinare al plurale – prese in esame dai curatori dell’esposizione.
Nel percorso c’è anche un angolo di lettura con alcune proposte, come il libro The Brutish Museums: The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution di Dan Hicks. Il Museo Britannico diventa il Museo Brutale… Ecco: abbiamo bisogno di musei più umani perché ci insegnino a essere noi stessi più umani.
Saul Stucchi
Didascalie:
- L’interno del Palazzo Reale di Benin dopo la sua distruzione nel 1897, con il capitano C.H.P. Carter, F.P. Hill e uno sconosciuto (a sinistra)
Nigeria, Benin, 1897
Pitt Rivers Museum, Università di Oxford, Inv. n. 1998.208.15.11. - Placca in ottone con rilievo raffigurante Oba Ozolua, Ama, Corporazione reale dei fonditori di bronzo (Igun Eronmwon)
Nigeria, Regno del Benin, XVI/XVII secolo, Inv. n. RAF 602.
Dono di Eduard von der Heydt; probabilmente saccheggiato dall’esercito britannico nel 1897. - Officina di Phil Omodamwen
Figura contemporanea in stile antico
Nigeria, Benin City, prima del 2023, fusione in ottone, Museum Rietberg, Inv. n. 2024.17, acquistato con fondi della Città di Zurigo.
In dialogo con il Benin:
arte, colonialismo, restituzione
Informazioni sulla mostra
Dove
Museo RietbergGalblerstrasse 15, Zurigo (Svizzera)
Quando
Dal 23 agosto 2024 al 16 febbraio 2025Orari e prezzi
Orari: da martedì a domenica 10.00 – 17.00Mercoledì 10.00 – 20.00
Biglietti: intero 18 CHF; ridotto 14 CHF