Non un’intervista, ma una piacevole chiacchierata. Ecco cos’è stata la conversazione che ho avuto con Maximilian Nisi un pomeriggio dello scorso maggio, quando il Teatro Franco Parenti di Milano aveva in cartellone “Il piacere dell’onestà” di Pirandello, per la regia di Liliana Cavani. Nella recensione dello spettacolo avrei poi scritto di Maximilian: “attento a esprimere tutte le sfumature di un personaggio che in qualche modo è spettatore al riparo da eventuali ripercussioni…”.

Avevamo appuntamento all’ingresso del teatro riservato agli attori. Quando è arrivato da Torino, ci siamo seduti su uno dei divanetti prima del corridoio che porta ai camerini. “Sono sempre di corsa…” sono state le sue parole d’esordio, seguite da un elogio ai critici teatrali e ai giornalisti che si occupano ancora di teatro. Grazie alla loro memoria storica sono capaci di fare confronti tra allestimenti, registi, attori. Maximilian mi inseriva nel novero della categoria, mentre io gli rispondevo che preferisco considerarmi un giornalista culturale, definizione più ampia e allo stesso tempo meno impegnativa (anche se sono il primo a riconoscervi un alone di understatement…).
Passione e ricerca
In pochi minuti sono emersi tre dei temi che accomunano i nostri percorsi, peraltro così diversi: curiosità, passione e conoscenza. “Continuo a fare questo lavoro perché mi rendo conto che mi dà ancora la possibilità di studiare e di conoscere cose che non so”, ha detto. Gli permette di approfondire dei mondi, facendogli magari fare delle scoperte su usi e costumi, sulla moda… “Non voglio essere viscontiano…” è stato il primo dei riferimenti a registi a lui cari che hanno punteggiato la chiacchierata.
Nella sua ricerca le immagini sono fondamentali. Studiare non basta, bisogna entrare nei musei, visitare mostre, vedere film, spettacoli, ascoltare concerti, leggere anche testi non teatrali, per “cercare la teatralità nella nostra vita”. Io non ero ancora completamente a mio agio, ma mi accorgevo che Maximilian mi parlava come se ci conoscessimo da anni. Ho subito notato – e apprezzato – il suo eloquio sciolto, ma controllato. Mai una parola fuori posto.

Il teatro è in crisi? O forse lo è sempre stato… Ho cercato di pungerlo. Maximilian si è detto d’accordo. Probabilmente anche Sofocle aveva problemi ad allestire le sue tragedie, ma è vero che in questo momento vogliono recitare tutti. A muovere lui, invece, non è stata una spinta narcisistica. Lui studia per raccontare storie, per farsi ponte tra l’autore e il pubblico.
L’importanza delle domande
Importante quanto la recitazione è l’insegnamento. Cerca sempre di capire per quale motivo un giovane oggi scelga questo mestiere che, se fatto bene, è pieno di rinunce, di contraddizioni, di momenti bui. Non sempre gratificante, né economicamente soddisfacente. Forse è l’uomo a essere in crisi. “Il teatro è molto più vicino alla realtà delle realtà stessa, almeno per noi che lo facciamo. Non c’è niente di fasullo. È più fasulla la società”.
E il pubblico? Ci sono teatri che funzionano. Maximilian è convinto che il pubblico ci sia. È il lavoro del teatrante a essersi inquinato.
“Io sono allievo di Strehler“, da lui definito regista “poetico”: “raccontava quello che poteva esserci prima, attorno a una battuta, dopo. Tutto quello che non era scritto nel testo era rappresentabile”. Subito dopo è venuto il richiamo a Ronconi, l’altro suo insegnante di riferimento, per il quale era importante lasciare dei punti di domanda. Così come avviene in questo “Il piacere dell’onestà”, ricco di cose misteriose e dal finale aperto. È importante lasciare al pubblico la possibilità di immaginare.
Facendo riferimento al via vai continuo attorno a noi ho buttato lì a mo’ di provocazione: “Il teatro fuori dal teatro…”. Maximilian ha sorriso e ha ripreso il filo del discorso. Lui si mette al servizio del personaggio, scomparendo in quello che fa. Non recita per gratificare il pubblico, anche se il pubblico è importante, così come lo sono i colleghi e il testo.
Più coraggio!
Si è lamentato invece della mancanza di coraggio che rischia di soffocare l’ambiente. In cartellone si leggono sempre gli stessi titoli. A questo punto ha citato dei capolavori assoluti, alcuni dei quali sono tra quelli che io cerco di vedere sempre, in tutte le salse (anzi, forse vedrei solo quelli, gli ho detto…). “La tempesta” di Shakespeare, “Il gabbiano”, “Medea”… “Di Goldoni si fanno quei tre, quattro testi ed è un autore che ha scritto più di 250 opere”. È troppo facile e non è utile. Ci vuole più coraggio. Ronconi non ha mai rassicurato nessuno, spesso metteva in difficoltà il pubblico, ma è riuscito a formare un pubblico molto colto, ad educarlo. Per fare un altro esempio si è soffermato sui vestiti dei personaggi de “Il giardino dei ciliegi”. Ora molti li fanno chiari, uniformandosi a quella che era soltanto una scelta registica di Strehler.
Come insegnante, Maximilian s’impegna a raccontare con passione ai ragazzi per catturarli. È gratificante, ha confessato. È come seminare e lavorare la terra, anche se adesso si sente il bisogno di pioggia, ovvero, fuori di metafora, si patisce la scarsezza dei finanziamenti dallo Stato. Allora gli ho raccontato del senzatetto che avevo incontrato arrivando a teatro: aveva un cartello su cui raccontava la sua storia. Neanche per chiedere la carità basta più allungare una mano… Oggi è tutto “storytelling”. Maximilian ha confermato la mia impressione. È per questo che non gli piace il teatro di narrazione. “Sono per un teatro democratico, ma non troppo”. Strehler diceva: “la diciamo tutta, la diciamo alta; l’arte, se siamo in grado, la facciamo dopo. Però comunque ci facciamo sentire”.
La chiacchierata proseguiva sempre più a ruota libera, tra citazioni, riferimenti e incroci di esperienze. Maximilian ha ricordato che per Gassman il teatro provoca una malattia per la cura della quale è necessario dell’altro teatro. E poi abbiamo parlato della crisi del classico e di quella della scuola. Oggi registi e attori sono carichi di una grande responsabilità perché bisogna insegnare tutto agli spettatori, da come si entra in sala a come si esce, come ci si comporta. Una volta il teatro serviva a sublimare, a dare quel qualcosa in più che si aggiungeva a quanto già fornivano la famiglia, la scuola, la chiesa. Era una sintesi. Adesso è un sostituto.
In camerino
Uscito dalla scuola del Piccolo, ricorda ancora con commozione e riconoscenza spettacoli che erano viaggi notturni nella follia. Anche qui ha evocato registi e casi esemplari, come quando fu diretto dal regista russo Anatolij Vassil’ev (ne l’“Edipo re”): “la gente aveva il tempo di staccare, come al decollo”. Gabriele Lavia dopo una ventina di minuti del “Riccardo II” fece calare il sipario per riprendere da capo lo spettacolo perché uno spettatore era arrivato tardi e che un’altra volta scese in platea a dare le mentine a uno che continuava a tossire. Aneddoti gustosi raccontati con maestria. Ero incantato.

Ci siamo poi trasferiti nel suo camerino, impregnato da “un’odore di cimitero” per il grande vaso di fiori piazzato davanti allo specchio (parole della sarta che a un certo punto è entrata a portare o prendere – non ricordo – un abito). Il resto della conversazione è stato dedicato ai lavori successivi a questo Pirandello, dalla ripresa di “Un autunno di fuoco” con Milena Vukotic a quella di “Mister Green” con Massimo De Francovich, passando per il suo tributo al Bardo “Shakespeare amore mio” (andato in scena il 24 maggio a Napoli) e “Chopiniana” (recitato a Velletri il 18 maggio).
Maximilian Nisi ha un’agenda ricca di impegni, ma attende sempre una telefonata, che qualcuno gli proponga una cosa nuova, un testo che non ha ancora letto. È sempre alla ricerca di tesori e aspetta il momento giusto per compiere quello che ha definito “il” viaggio: l’India…
E infine mi ha ringraziato felice. Per lui conoscere una persona, trascorrerci del tempo, parlarci ha ancora un senso.
Saul Stucchi