In questo tempo in cui il politically correct è un ipocrita cannone puntato contro il buon senso, la visione di ”Dr. House-Medical Division (House, M.D.)” è un toccasana non solo per la mente, ma anche per lo spirito. Mandato in onda da Fox TV quando ancora le serie televisive non erano oggetto di culto ossessivo, il plot ideato dal geniale David Shore, si inseriva in un nutrito filone che Partiva dal ”Dottor Welby, M.D.” (del 1969), fino ad arrivare a ”E.R.”, l’acclamata serie che lanciò, fra gli altri, George Clooney.
Esisteva quindi il rischio che questa produzione si confondesse con le troppe altre che descrivevano la vita in un ospedale. Tant’è vero che lo stesso Jesse Spencer (l’attore che interpreta il fidato e bistrattato Dottor Chase), consigliato dal suo agente a prender parte al provino, era poco eccitato all’idea di ricoprire un ruolo in quello che gli sembrava un clone di ”General Hospital”.
È tuttavia sufficiente vedere poche sequenze di un episodio qualunque per capire che ”House, M.D.” è qualcosa di molto diverso.

Il tema medico-scientifico è talmente specialistico e complesso da rendere chiaro che si tratta del semplice pretesto dello sceneggiatore per poter approfondire ben altre tematiche. Di carattere sociologico, quasi antropologico.
Il perno intorno al quale ruotano le otto serie è ovviamente la complessa personalità del protagonista, al quale l’eccellente Hugh Laurie presta gli occhi azzurri, le smorfie beffarde, l’espressione intensa, la camminata dinoccolata, e la capigliatura disordinata.
Dr. Sherlock
Il carattere multiforme di House è la chiave di lettura per poter interpretare le vicende personali di tutta la variegata umanità che gli gira intorno: siano essi pazienti con misteriose patologie, membri del suo staff, superiori, o l’unico vero amico che abbia il Dottor Wilson, interpretato dal celebre Robert Sean Leonard. E qui ci troviamo dinnanzi al paradosso House.
Ciò che di prim’acchito appare del protagonista è una natura insensibile e distaccata, fredda e rigorosa come si vuole che la scienza sia. House viene più volte descritto come un geniale medico privo di sentimenti, focalizzato solo sull’aspetto scientifico, a discapito delle relazioni umane. Si appassiona agli enigmi, ai rompicapi medici, e per risolverli è disposto a tutto. Una personalità all’apparenza urtante.
Spesso è accostato a Sherlock Holmes, per l’onniscienza nel proprio campo, per i modi sgarbati, per l’assoluta fiducia in sé stesso, per l’arroganza, per il metodo investigativo che applica, per la capacità di cogliere il dettaglio, infine per la dipendenza dalla droga.
Peraltro, David Shore ha ammesso di essere un fanatico dei romanzi di Arthur Conan Doyle, e di essersi ispirato a lui per ideare il suo personaggio dalla mente articolata che spesso (con l’aiuto del Vicodin) genera incubi, fantasmi, allucinazioni.
Ancor di più, la solitudine dalla quale sceglie di farsi circondare, lo fa assomigliare ad un’entità divina, perché la divinità è sola davanti ai problemi del mondo. Come Holmes ha accanto solo Watson, House ha un solo amico, paziente e fedele: il Dottor Wilson, la cui amicizia è la vera architrave dell’intera serie.
Eppure.
Le sfumature
Eppure, la vera natura di Gregory House è drammaticamente differente, più complessa e densa. Shore si diverte a metterla in mostra nei momenti in cui meno ce lo si aspetta, sfidando lo spettatore a scoprirla. Spesso, anche relativamente ai personaggi storici, si tende a credere che i grandi uomini non abbiano difetti, e che i malvagi non abbiano pregi. È ovviamente una mistificazione agiografica che successivamente anche Christopher Nolan con i suoi film su Batman ha contribuito a smantellare.
Abituati a decenni di melassa buonista proveniente da Hollywood e dintorni, melassa che fronteggia una malvagità talmente scoperta da essere inverosimile, questa serie ci costringe a riconoscere i sentimenti senza l’evidenziazione deformante del sentimentalismo.
Ci costringe, ancora di più, a cogliere le sfumature, attività di gran lunga più faticosa di quella di separare in modo manicheo il bene dal male. Ci mette davanti all’evidenza della complessità delle relazioni umane. Ci insegna a guardare oltre la mera forma, specie quando diventa formalismo. Ci colpisce allo stomaco, per commuoverci subito dopo.
House ha un’umanità profonda. Chi non è così superficiale dal fermarsi all’apparenza urtante, che il nostro si diverte a ostentare nei corridoi del Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, potrà coglierne la fragilità e la sensibilità. Anche se essa si mescola, come sempre in natura, a spigoli, spacconate, provocazioni, ironia e sarcasmo. Ciò contribuisce a comporre una personalità poliedrica e controversa, ma al contempo densa e, in definitiva, veridica. House soffre.
Sapienza è dolore
Soffre il dolore alla gamba martoriata in un incidente, soffre la solitudine, soffre la perdita dei pazienti. Ma la sua sofferenza non ha nulla di plateale, di tragico, nulla di paragonabile alla banale sofferenza attualmente codificata dalla televisione. La sua è una sofferenza profonda, intima, privata, mediata tuttavia dalla logica, dalla consapevolezza che gli fa affermare “la vita è questo schifo”.
“Grande sapienza è grande tormento: chi più sa, più soffre” recita l’Ecclesiaste (1, 18). Il medico del Plainsboro lo sa, e lo accetta senza teatralità.
House rifiuta il contatto con il paziente, non per indifferenza, ma per restare lucido e distaccato, evitando di farsi coinvolgere emotivamente dalla vicenda umana di chi gli si affida (e quando gli si rivolge, lo fa usando il confidenziale “tu”, senza pietismo né ipocriti formalismi). Ma non si arrende se non davanti all’evidenza, cercando fino all’ultimo la soluzione. Cosa che gli ha fatto ottenere un parallelo con Achab, che insegue Moby Dick fino ai confini del mondo.
Nei confronti del suo superiore, la severa Cuddy (interpretata dall’energica Lisa Edelstein), House è sfidante e provocatorio, indisciplinato ben oltre il limite dell’insubordinazione. Ciò nondimeno, lui la ama, la ama nel proprio modo inconsueto, spesso imperscrutabile ed incoerente. Ma è un amore sincero che travalica il desiderio sessuale; al punto che, quando Cuddy rompe la relazione, lui perde la testa tanto da finire in galera.
Team leader
La galera, il manicomio, le tante sospensioni dall’esercizio, le inchieste sul suo comportamento, la perdita temporanea della licenza, sono le tante cadute che fanno da contraltare ai successi nel reparto di diagnostica. Ma sono altrettante esperienze umane, che House vive con serenità quasi passiva e con curiosità, portandosi appresso un arricchimento che aggiunge uno strato alla sua natura, senza mutarne la personalità.
Anche in quei contesti estremi House riesce a diventare una figura di riferimento, il tutto senza snaturarsi, né modificare la forma dei suoi comportamenti, senza scendere ad atteggiamenti compromissori: infatti paga. Ma ciò lo rende punto di riferimento e guida.
E qui si introduce l’altro tema interessante: la leadership.
Una qualunque delle serie di House, è una lezione su come si guida un team.
Fermandosi a osservare le dinamiche che egli impone alla sua squadra di collaboratori, possiamo vedere come House stressi qualsiasi situazione con ogni mezzo.
Gran parte delle sue provocazioni farebbe impallidire qualunque buon progressista. Egli infatti bersaglia l’etnia, il sesso, i difetti fisici, e le inclinazioni sessuali di tutti i componenti del team (dove, peraltro, si rinvengono etnie molteplici e orientamenti sessuali differenti; il tutto, però, senza la stucchevole medietas farisea del politically correct liberal che tanto ci annoia): qualunque mezzo, pur di pungolarli e di tenerli sotto pressione, abituandoli a lavorare in condizioni ambientali non ideali, focalizzati solo sull’obiettivo.
Ma non è solo questo aspetto, che fa pur sempre parte della teatralità del personaggio, ad interessarmi.
Le famose diagnosi differenziali vedono tutta la squadra allo stesso livello, ogni membro è libero di avanzare soluzioni, motivandole. Le idee vengono vagliate e considerate attentamente; anche le più fantasiose. E vengono scartate solo davanti all’evidenza di elementi contrari.
Nel gestire il gruppo, House non fa mai valere la propria posizione gerarchica. Asseconda l’istinto e la competenza dei componenti, li responsabilizza, salvo poi chiudere la partita quando ha l’intuizione giusta, figlia anche del lavoro di squadra. Così, nonostante la molteplicità di atteggiamenti sgradevoli, riesce a farsi seguire, ammirare e rispettare (e forse anche amare, anche se nessuno di loro, nemmeno Cameron da sempre innamorata di lui, lo ammetterà mai).
E in questo quadro è esemplare la frase che Chase, alla fine di Instant karma (S6E4: Serie 6, Episodio 4, ndr), gli rivolge: “Che tu voglia o no essere il capo, lo sei e lo sarai sempre”.
Simone Cozzi