L’editoriale “L’ALIBI della domenica” di oggi è dedicato ai cambiamenti e alle persistenze. Ma anche alle preziose didascalie.
Parlando della mostra “Uniform. Into the Work / Out of the Work” davanti alla stampa riunita per l’anteprima, il curatore della PhotoGallery e della Collezione MAST di Bologna Urs Stahel a un certo punto si è soffermato su due parole italiane: “uniforme” e “divisa”. “La prima – ha notato – mette in rilievo l’aspetto unificante, la seconda una dimensione divisiva: termini che rivelano inclusione ed esclusione come due azioni collegate, apparentate”.

Questa considerazione può allargarsi e adattarsi a ogni fenomeno culturale e storico. Continuità e rottura, conservazione e innovazione, locale e forestiero sono termini che solitamente concepiamo come binari, tra di loro alternativi. E invece spesso coesistono, come le due correnti nello stretto di Marmara. Fu Luigi Ferdinando Marsigli (o Marsili) a scoprirne nel 1680 la seconda, più profonda, che scorre in direzione opposta a quella superficiale. Su questa scoperta si apre il libro “Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente” di Neal Ascherson (Einaudi).
Un anellino d’oro
Mi è capitato di pensarci più di una volta durante la settimana che si è appena conclusa, una settimana piuttosto intensa sotto il profilo culturale.
Nella Torre Tesori di Palazzo Madama a Torino è esposto un anellino in oro, datato al V/VI secolo d.C., che a prima vista rischia di passare inosservato. La didascalia non aiuta. Recita infatti: “Anello nuziale con iscrizione Stefani Valatru”. Più generoso era il pannello didattico che l’accompagnava in occasione della mostra “Odissee. Diaspore, invasioni, migrazioni, viaggi e pellegrinaggi” allestita proprio a Palazzo Madama tra il 2017 e il 2018.

Diceva: “anello nuziale in oro con castone recante i due nomi incisi – quello maschile (Stefanius o Stefanus) è latino, mentre quello femminile (Valatrud o Valatruda) è germanico – costituisce una eloquente testimonianza di integrazione fra Goti e Romani nel regno di Teodorico”. “Eloquente” se si ha l’accortezza di notarlo e la pazienza di scoprirne la storia…
Un sarcofago paganeggiante
Sempre nello stesso museo di Palazzo Madama mi sono soffermato davanti al sarcofago di Filippo Vagnone, realizzato forse da uno scultore piemontese. Data alla fine del XV secolo ed è molto interessante perché i suoi due lati maggiori sono decorati con scene tratte dalla mitologia classica: da una parte storie di Perseo, dall’altra la parata delle Muse con il dio Apollo.
Gli appassionati di arte antica come il sottoscritto s’imbattono spesso in sarcofagi di tarda epoca romana con scene dall’Antico e dal Nuovo Testamento: il Buon Pastore, la Traditio Legis, Giona sotto la pianta del ricino (un frammento riguardante quest’ultimo motivo l’ho visto al Museo di Santa Giulia a Brescia, di cui ho scritto la settimana scorsa).
Questo sarcofago, invece, ribalta la prospettiva. Il cavaliere Vagnone era un giurista e letterato imbevuto di cultura classica pagana e pensò bene di affidare il proprio corpo a un’urna sepolcrale rivestita di motivi comuni ben più di mille anni prima…
Tornando a Bologna da dove ho preso le mosse, cambia la mostra ma il filo di queste considerazioni non si rompe. Uno dei pezzi più interessanti dell’esposizione “Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna”, allestita al Museo Archeologico di Bologna (fino al 24 maggio 2020) è la “Stele di Avile Tite” in pietra calcarea, da Volterra e lì conservata nel Museo Etrusco Mario Guarnacci.
La didascalia spiega: “il nome rivela l’origine italica di Avile Tite, vera e propria icona di un complesso fenomeno di trasformazioni sociali che coinvolsero personaggi di origine straniera rispetto ai gruppi gentilizi dominanti nell’età orientalizzante”.
Ecco: bisogna imparare a leggere i cambiamenti – e le persistenze – mentre sono in atto. Oltre a imparare a leggere le didascalie dei musei e delle mostre.
Saul Stucchi
La foto della stele di Avile Tite è presa da Wikimedia