Non essendo un critico teatrale ma un giornalista culturale – cioè uno che pur sapendo quasi nulla, scrive di tutto – quando assisto a uno spettacolo cerco di captare riferimenti, assonanze (o dissonanze) e suggestioni in quanto mi circonda. Mi è capitato anche dopo aver visto, in una casa privata in centro a Milano per la rassegna Portiamo il teatro a casa tua ideata da Mariagrazia Innecco, il monologo Mater con Diana Ceni. Ne firmano la drammaturgia e la regia Mino Manni e Marta Ossoli, con l’assistenza alla regia di Fabrizio Kofler (Alda Faidutti ha realizzato i costumi di scena).
È uno spettacolo molto intenso, accolto da caldi applausi dal pubblico, ben oltre la stima e l’affetto per Diana, a riprova che l’interpretazione e la messa in scena piacciono. Avevo già visto alla prova Diana in Clitemnestra della Yourcenar.
In questa occasione mi è parsa ancora più convincente, perfettamente a suo agio nella parte. E questo – a ben vedere – è un paradosso perché il ruolo in questione è quello nientemeno che della Madonna, la Madre Sofferente per antonomasia.
Accennavo in apertura al mio “metodo” consistente nel ricercare connessioni. Bene: la prima viene dalla rubrica Madri, coraggio di Gabriele Romagnoli pubblicata sul numero di settimana scorsa (1° luglio) del settimanale D de La Repubblica. “Chiamatele Penelope” è il titolo del pezzo, da cui prendo le prime righe: “Ogni madre dovrebbe avere per secondo nome Penelope. Nel senso che il fato le prescrive ore, mesi, anni di attesa. È incontestabile: la sua “carriera” comincia con un’attesa.”
Quante e quali le attese di Maria, fino a quella nell’ora suprema del Figlio ai piedi della Croce! Ma momenti di angoscia e di paura non sono certo mancati negli anni precedenti, basti ricordare lo spavento procurato ai genitori dalla sparizione del Fanciullo. Esperienza che accomuna i genitori di tutte le generazioni, da che mondo e mondo. Difficilmente invece capita che l’insensibile protagonista venga ritrovato in sinagoga a impartire insegnamenti agli anziani: di solito si attarda con gli amici in qualche attività ludica (si spera al di qua dei confini della legalità).
Preoccupazioni e angosce sono gli alimenti con cui i figli nutrono i genitori (lo dico tra parentesi: la storia, la letteratura e il teatro forniscono infiniti esempi di madri in stato d’ansia. Più raro che siano rappresentati in sofferenza i padri, ma è soltanto un altro gender gap che va colmato).
Che il figlio – o la figlia, ça va sans dire – si comporti rettamente non procura alcun lenimento. Anzi, amplifica le sofferenze. Quest’altra considerazione mi viene dalla lettura de La scuola più bella che c’è, il libro – per ragazzi, ma non solo – che Francesco Niccolini ha scritto con Luigi D’Elia e Sandra Gesualdi su don Milani e la scuola di Barbiana (prossimamente ne pubblicherò la recensione qui su ALIBI).
Quante sofferenze ha patito Alice, la madre del sacerdote ribelle! Per l’esilio sui monti, le false accuse, le incomprensioni, gli attacchi e, non ultima, per vederlo spegnersi a soli quarantaquattro anni per un linfoma di Hodgkin.
Per una madre sopravvivere al figlio è il più tremendo dei dolori, anche se in questo caso la Passione porterà in premio la salvezza del mondo. Mater racconta di questa sofferenza, mescolandola con la tenerezza, i ricordi e i momenti d’intimità familiare.
Diana è brava a rendere le sfumature dei vari stati d’animo di Maria, con cambi di tono anche repentini e drammatici. Coinvolge ed emoziona con la parola – dall’originalissimo impasto – e con la gestualità. Si vede che ha attentamente studiato la lezione dei suoi maestri (e amici) Manni e Ossoli.
L’augurio è che Mater venga replicato in futuro perché altri spettatori possano ammirare il talento di Diana Ceni.
Saul Stucchi