Al termine della rappresentazione gli applausi sono stati timidi, quasi di cortesia. Il pubblico madrileno ha apprezzato ma non deve essere rimasto totalmente soddisfatto; a me invece resterà sempre un bel ricordo dell’opera Death in Venice a cui ho assistito alla metà del dicembre scorso al Teatro Real della capitale spagnola. Ci sono andato dopo aver fatto i compiti a casa: ho riletto il romanzo breve di Thomas Mann da cui Benjamin Britten ha tratto la sua versione operistica, di questa ho ascoltato la musica e letto il libretto, e infine ho visto (confesso, per la prima volta) la trasposizione cinematografica firmata da Luchino Visconti.
Ero curioso, per vari motivi: avevo già assistito a qualche spettacolo di prosa in Spagna, ma non ero mai stato al Teatro Real, avendo scarsa dimestichezza con il mondo della lirica. Ero appena stato, invece, a Lubecca per le due mostre sul rapporto di Thomas Mann con le arti visive, avevo inoltre letto alcune recensioni dello spettacolo e mi aspettavo un adattamento fedele e interessante. E così mi è parso, giustificando – ai miei occhi e orecchi – la levataccia alle quattro del mattino per volare a Madrid.Death in Venice è uno spettacolo molto articolato e la componente che più mi è piaciuta è la complessa macchina scenografica che asseconda lo svolgimento della trama con la puntualità di un orologio ben caricato. Ma proprio la scenografia mi ha sorpreso per la pressoché totale assenza di Venezia. La città lagunare è infatti richiamata solo da riferimenti indiretti, come l’informe scivolo che allude alla gondola che trasporta Aschenbach al Lido. L’unico riferimento aperto compare al momento dello spettacolo della banda di comici quando i personaggi diventano spettatori della loro stessa vicenda.
Così come il testo manniano, l’opera di Britten si regge su varie dicotomie (irrisolte): desiderio – continenza, parola – bellezza, corpo – anima, ego – società, in perenne alternanza tra i miasmi della laguna. “What do I really want?” si domanda Aschenbach, consapevole di tergiversare tra opposte volontà, incapace di decidersi. Nelle note di regia Willy Decker ha sottolineato proprio l’incertezza di Aschenbach che non prende mai decisioni, a farlo sono altri per lui, come il gondoliere (uno dei messaggeri di morte che punteggiano l’opera) che gli “impone” il viaggio al Lido. Quello che nel romanzo manca e che invece qui sul palco avviene è il contatto fisico tra i due protagonisti, quando lo scrittore e il giovane Tadzio si concedono un tango. Perché, conclude Aschenbach tra delirio e ispirazione divina, la bellezza conduce alla saggezza. Sì, ma attraverso i sensi…
Chaos, chaos and sickness.
What if all were dead
and only we two left alive?
O Aschenbach…
Famous as master…
Self-discipline… Your strength…
All folly, all pretence –
O perilous sweetness the wisdom poets crave.
Socrate knew. Socrate told us.
Does beauty lead to wisdom, Phaedrus?
Yes, but through the senses.
Saul Stucchi
DEATH IN VENICE
di Benjamin Britten
Libretto di Myfanwy Piper, basato sul romanzo breve Der Tod in Venedig (1912) di Thomas Mann
Coro e orchestra titolari del Teatro Real
Direzione musicale: Alejo Pérez
Direzione di scena: Willy Decker
Scenografia: Wolfgang Gussmann
Gustav von Aschenbach: John Daszak
Il viaggiatore e altri ruoli: Leigh Melrose
La voce di Apollo: Anthony Roth Costanzo
Tadzio: Tomasz Borczyk / Alejandro Pau
Teatro Real
Madrid
4 – 23 dicembre 2014