Stanco e felice, mi riposo seduto sulla gradinata dando le spalle all’arena romana di Arles, questa piccola città che ha usato su di me i suoi più efficaci filtri e incantesimi amorosi già subito ai primi passi e ai primi sguardi.

Nella luce dorata che precede il tramonto, guardo svagatamente le facciate chiare delle case, le imposte di legno colorato, i davanzali saturi di fiori, l’insegna dipinta sul muro della Brasserie L’Aficion, le caviglie e le andature delle donne di passaggio.

Dall’arena proviene il suono sinusoidale tipico del pubblico di una manifestazione sportiva: l’alternanza di brusii, esclamazioni e applausi. Dentro vi si sta svolgendo una corrida, l’esecrabile spettacolo condannato da tanti sul quale a dire il vero io non possiedo un’opinione.
Mi volto e mi accorgo che alcune persone stanno entrando liberamente nella grande struttura di pietra. Ipotizzo che l’evento stia volgendo al termine e abbia realizzato un buon incasso e si consenta dunque ai passanti di sbrirciarne qualche momento e così, mosso dalla curiosità, mi alzo e mi dirigo verso il guardiano, che con un sorriso, un cenno del capo e un eloquente gesto del braccio mi invita a godermi lo spettacolo.
Gli spalti sono effettivamente gremiti e anche sui gradini che immettono nel grande ovale, dai quali si assiste in piedi, devo trafficare un po’ per conquistare una buona visuale.

Sulla pista ellittica di sabbia si muovono un toro nero con le estremità delle corna ricoperte da protezioni arancioni per impedire che eventuali colpi producano ferite e sei giovani uomini magri e atletici vestiti in modo semplice, maglietta e pantaloni, completamente di bianco.
Una sfida incruenta
Constato rapidamente che si tratta di una faccenda incruenta: gli uomini non dispongono di strumenti atti a trafiggere la bestia, devono piuttosto collocare sulle corna qualcosa che tengono in mano e che non riesco a distinguere; la mia buona educazione viene tranquillizzata.
Osservando meglio però, mi rendo conto che l’azione da svolgere è in realtà di segno opposto: i giovani non devono mettere bensì togliere dal corpo dell’animale, afferrare dei nastri, delle coccarde da conquistare come piccoli trofei e per farlo utilizzano strani oggetti metallici, simili a pettini stretti e lunghi dai denti molto larghi, che stringono fra le dita.

Avvicinarsi di soppiatto al toro o stuzzicarlo con i movimenti per far si che si avvicini, tentare di strappar via uno dei nastri o semplicemente provocare una carica per inscenare una repentina quanto rischiosa fuga, correre verso la balaustra di legno rosso che circonda la pista e con un salto scavalcarla o più spesso utilizzarne il bordo come primo appoggio per un ulteriore e ben più arduo balzo che fa terminare aggrappati alle recinzioni metalliche della tribuna, gesto atletico che suscita stupefatta ammirazione e suggerisce la premessa di strenui allenamenti: in brevissimo tempo tutto questo mi appare straordinariamente eccitante ed emozionante.
Non ho tempo e nessuna voglia di ragionare in termini etici, chiedendomi se lo spettacolo sia sciocco o brutale: sono completamente ipnotizzato. Mi appassiono all’evento con la spontanea e pericolosa passione dei bambini.
Ma la mia mente non si ferma mai, i suoi ingranaggi sono perennemente in funzione, freneticamente in un’attività che non di rado mi spossa e così, senza peraltro smarrire l’adesione a ciò che accade davanti ai miei occhi, in una parte del mio cervello comincio a pormi delle domande. Provo compassione per l’animale? Sì, ma non troppa, anche perché non sono vegetariano e dunque non intendo essere ipocrita.
Una virtù trascurata
Qual è la parola chiave che viene tramandata da questa pratica antica? Mi dico: coraggio. Coraggio: che virtù trascurata nei nostri tempi, condannata all’obsolescenza. Forse varrebbe la pena di concederle di nuovo un po’ di attenzione. Sperando non valga solo quello fisico espresso dai giovani toreri, che possiedo in dosi minime, e sia lecito considerare anche quello richiesto nella piccola prosa dei giorni feriali.
E però: qual è la ragione del sorprendente godimento e del sorprendente senso di liberazione che la versione aggiornata di questo arcaico rito mi sta procurando? Ecco la risposta possibile: in un’epoca che ci vuole uomini finti, fatti di pixel e teoria, che vuole incessantemente convincerci che possiamo e dobbiamo essere più giusti di Salomone, più generosi di San Martino, più altruisti di Francesco d’Assisi, sterilizzando in fretta oscurità, ambiguità e aggressività, questo spettacolino per turisti ci restituisce l’immagine veritiera e realistica della nostra inestricabile mescolanza di grazia e di fango. E se il coraggio più necessario fosse quello da utilizzare per ammettere che conteniamo in noi, come sosteneva per sé un grande poeta, una bestia, un angelo e un pazzo?
Adesso devo andare, devo ricongiungermi agli altri che mi aspettano in albergo e comunque credo che manchino solo pochi istanti alla conclusione della corrida. Prima di lasciare l’arena però, voglio assolutamente scattare delle fotografie, nonostante la mia imperizia al riguardo dovrebbe scoraggiare il tentativo di fermare soggetti in movimento.

Mi concentro spasmodicamente alla ricerca delle inquadrature e del momento giusto per bloccare le immagini, trattengo il respiro per mantenere immobile il cellulare. Uscendo, saluto e ringrazio il cordiale guardiano.
Prima di ridiscendere la scalinata, mi fermo a controllare lo smartphone e resto a bocca aperta: alcuni scatti risultano incredibilmente riusciti; in un paio i ragazzi in bianco vengono colti proprio nell’istante in cui tentano di sottrarre i piccoli nastri all’iroso corpo nero dell’animale.
Giovanni Granatelli