Ottava puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.
Alle sette del mattino, le campane suonano seguendo un ritmo a base ternaria: din din din; din din din; din dindindin dindindin dindin – e così a ripetere (probabilmente per nove volte, ma non riesco a contarle).
Più tardi vado in cattedrale, indossando la mascherina. È aperto il solo portone di sinistra. Due uomini in abiti scuri, muniti di telefono con installata la relativa applicazione, verificano il pass di chiunque si accinga a entrare.
Mi posiziono su questo lato della chiesa, addossandomi a una delle robuste sedie. I fedeli attorno a me (per lo più signore attempate, ma c’è anche qualche donna giovane, e qualche uomo) si mantengono alla debita distanza. Una grande colonna quadrangolare – cui è appesa una teca contenente immaginette che qualcuno si accosta a sfiorare con gesti devoti – mi preclude la vista degli officianti, a ridosso dell’iconostasi. Di fronte a me, attorno a un leggio ruotabile su cui sono aperti volumi liturgici, alcuni cantori in piviale.
Il rito consiste in un alternarsi di salmodie e di inni a cappella; il loro potente vibrato, che asseconda e sostiene la voce guida, ricorda il cantu a tenore sardo. Mi pare calzante la breve annotazione che avevo trascritto dal Diario di Seferis: “Suggestione dei suoni e delle parole. Indubbiamente il rituale della nostra Chiesa s’apparenta alla tragedia antica”.
Ci si alza e ci si siede secondo il caso, come nella nostra messa. L’espressione più ricorrente è Kyrie eleison, intonata però con una melodia dalle volute orientaleggianti, ben diversa rispetto a quella “tridentina” in uso da noi. Ma colgo spesso anche il vocabolo Vassilissa, ossia Regina, presumo applicato alla Madonna.
I celebranti e i chierichetti (non so se si chiamino così) si uniscono in una breve processione fin dietro l’iconostasi e ritorno, recando i doni da presentare all’offertorio. Arriva una mamma col suo figlioletto, in giaccone giallo. Il bambino appare insofferente verso un cerimoniale il cui senso gli risulta incomprensibile.
Alla fine, prima di uscire, ci mettiamo tutti in fila indiana e ci portiamo, uno alla volta, di fronte al sacerdote più anziano, a ricevere i tre cantucci di pane benedetto che per gli Ortodossi tengono il luogo della comunione. Qualcuno (io pure) li mangia subito, qualcuno invece li ripone per portarli a casa.

Torno a passeggiare lungo la banchina. Ha ragione Kostas: molti di questi edifici hanno davvero una chiara impronta architettonica veneziana.

Rifaccio il percorso fino alla spiaggia di Nea Chora. Nell’ampio fossato ai piedi del muraglione, hanno iniziato ad allestire un giardino, mettendo a dimora pianticelle – assistite da un impianto di irrigazione a goccia – e tracciando un viottolo (al momento, non percorribile: una griglia ne sbarra l’accesso, dall’area pubblica a ridosso degli scogli).
Costeggio l’arenile sulla piattaforma di legno. Un’anziana piuttosto flaccida, in due pezzi rosso, infila una cuffia impermeabile e si tuffa fra le onde calme.

Mi siedo su una panca, nei giardini poco distanti. Controllo l’ora. Mi pervade, come nel 2000, la sensazione di una grande elasticità del Tempo greco: si portano a termine tutte le azioni che si erano preventivate e ci si accorge, sorpresi, che le lancette sono avanzate di ben poco.
La stessa, piacevole impressione l’avrò di nuovo verso sera, passeggiando in centro. Le si aggiungerà, però, un senso di straniamento spaziale tra realtà e memoria, quando risalirò in cima alla muraglia (sul parapetto della rampa di accesso, un gatto tigrato, col ventre, la punta delle zampe e parte del muso bianchi, sta mangiando i bocconcini deposti da qualche anima buona) e il tratto da percorrere lassù si rivelerà molto più breve di quanto ricordassi. Forse perché allora mi ero soffermato a leggere la poesia di Alceo…
Puntata 8 – segue.
Marco Grassano