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Voi siete qui: Musica & Danza » Achtung Baby: palinodia di un reazionario musicale

21 Gennaio 2020 Scritto da Simone Cozzi

Achtung Baby: palinodia di un reazionario musicale

È il 1990: gli U2 sono il gruppo rock più famoso del mondo. Hanno appena concluso un tour attraverso gli Stati Uniti, riscuotendo un successo planetario. Sono sulla cresta dell’onda da almeno 5 anni e potrebbero sedersi placidi sugli allori dei loro due dischi più recenti, The Joshua Tree e Rattle and Hum (un rutilante album live figlio della loro esperienza negli States che ha influenzato le sonorità, depurandole dal caratteristico sound irlandese).

Eppure sono stanchi e svuotati, prossimi alla separazione e alla fine. Il successo, il viaggio attraverso la nazione a stelle e strisce, le sue contraddizioni e sollecitazioni, tutto sembra aver inaridito e isolato ciascun componente dagli altri tre.

Achtung baby degli U2

Decidono, non senza una buona dose di fatalismo, di intraprendere una specie di viaggio finale alla scoperta di quello che sarà il loro destino, sia esso rinascita o conclusione di un percorso artistico e umano.

  1. U2 a Berlino e gli studi di Hansa Ton
  2. Achtung Baby: dallo scetticismo all’apprezzamento
  3. Il futuro dell’Europa: uno Zoo pieno di persone vocianti e scomposte

Berlino

La loro meta è Berlino, per una serie di buone ragioni: la città prussiana è da poco stata riunificata, mostra già quelle che possono essere le prospettive di espansione e di rinnovamento che si dilateranno sotto differenti punti di vista, rimbombando e rianimando tutta l’Europa. È una metropoli moderna dal sapore comunque antico e un po’ cupo, e per questo rappresenta benissimo quell’Europa che lotta fra crepuscolo autocelebrativo, di un passato sbriciolato negli anni, e aspirazioni di rinnovamento.

Scelgono di lavorare negli studi Hansa Ton, dove un paio di decenni prima David Bowie, nel pieno della fase glam del rock, aveva inciso alcuni brani.

I quattro si barricano in quegli studi, portandosi dietro poca Dublino e meno Stati Uniti. Affiancati da due musicisti non convenzionali come Daniel Lanois e Brian Eno (che accetta di fare loro da produttore in cambio di una partecipazione a un progetto a cui sta lavorando, che in seguito prenderà il nome di Passengers) iniziano a lavorare sodo, a riscoprirsi e ad esplorare nuove frontiere musicali.

Entrano sapendo che da lì usciranno, comunque vada, inevitabilmente trasformati.

Un giornalista e scrittore, Bill Flanagan, si unisce a loro, per documentare questa fase fondamentale della loro vita. Vivono insieme, gomito a gomito, condividendo tutto, senza quasi mai staccarsi. Alla fine di quell’avventura Flanagan scriverà un libro intitolato “U2 at the End of the World”, un accurato e coinvolgente diario di quei giorni.

In quel lasso di tempo, come per miracolo o forse per la magia che contraddistingue tutti i veri artisti, Hewson, Evans, Clayton e Mullen riescono a produrre tanto di quel materiale da riempire oltre due dischi: “Achtung Baby”, in primo luogo, e “Zooropa”, che verrà affinato durante il tour che porta lo stesso nome.

I quattro sono talmente prolifici da far avanzare perfino qualche brano che verrà poi utile per completare la colonna sonora (composta insieme a Daniel Lanois) di “Million Dollar Hotel”, un film che Wim Wenders realizzerà nel 2000, basato sulla sceneggiatura scritta dallo stesso Bono Vox.

Dallo scetticismo all’apprezzamento

Spesso si citano piccole rivoluzioni che rappresentano una spinta verso il nuovo e verso il meglio: questo disco, “Achtung Baby”, può essere certamente inquadrato in questo contesto.

Confesso, da reazionario musicale quale sono, di aver accolto con estremo scetticismo questo album che mi appariva a prima vista una opportunista strizzata d’occhio a nuove forme espressive e musicali, come disperato tentativo di non svanire nell’incapacità di rinnovare il proprio successo discografico.

Tuttavia, dopo pochi ascolti ho dovuto ricredermi, proprio per le ragioni che all’inizio mi ispiravano diffidenza.

Le atmosfere di “Achtung Baby” sono completamente diverse, rispetto a “The Joshua Tree”: unitamente all’introduzione dell’elettronica, la sessione ritmica (composta da Adam Clayton e Larry Mullen Jr.) si accaparra una buona fetta della scena creando un suono cupo, profondo e martellante, mentre la chitarra di The Edge, oltre a contribuire alla creazione di quest’atmosfera quasi lugubre, si intreccia con la voce di Bono che, travagliata e sofferta, esprime al meglio il dibattito interiore dell’uomo degli anni Novanta, improvvisamente proiettato in questa nuova entità futuribile chiamata Unione Europea, senza prima avere avuto il tempo di risolvere il rebus sulla propria identità, sul proprio passato e sul proprio ruolo.

Proprio Berlino, a cavallo fra nazismo, guerra fredda e UE, diventa un luogo simbolico per rappresentare gli squilibri dell’individuo contemporaneo.

Il futuro dell’Europa

In Acrobat le acrobazie di cui al titolo sono riferite alla percezione da parte dell’uomo degli anni Novanta della propria fragilità e inadeguatezza rispetto al presente e alle proprie contraddizioni. In una Berlino che cinquant’anni prima aveva osannato il culto del Superuomo e della razza perfetta, ora l’essere umano non riesce più a vedere la propria forza e vive in equilibrio fra aspettative e paure, percependosi solo e indifeso di fronte a tutto; persino di fronte all’amore, come si denota in Love is blindness e a Faraway (so close) in cui il concetto di solitudine e di incomunicabilità fra individui tocca l’apice.

Faraway (so close) è inclusa in “Zooropa”. Tuttavia riesce difficile separare i due album, in quanto rappresentano un tutt’uno sia dal punto di vista delle sonorità che da quello dei concetti espressi.

È come se Bono, infuso dallo spirito del suo MacPhisto (il personaggio diabolico che egli interpreta durante i concerti di quel tour infinito) fosse riuscito a sollevare il velo sul futuro del nostro continente e a vedere in anticipo le delusioni che aspettavano l’individuo solitario diretto verso il sogno sotteso all’unificazione europea.

Non per nulla, in The fly il protagonista (forse lo stesso MacPhisto) si rivolge dagli inferi al suo interlocutore sulla Terra spiegandogli ciò che ancora non riesce a vedere:

Non è un segreto che le stelle cadano dal cielo
l’universo è esploso per colpa delle menzogne dell’uomo;
proprio così: io mi sto trasformando,
ma sono tante le cose che, potendo, vorrei riaggiustare”

È evidente la metafora preveggente di un’Europa come uno Zoo pieno di persone vocianti e scomposte (il brusio confuso che in sottofondo nell’intro di “Zooropa”), che si accalcano alla ricerca del benessere, destinate invece ad assistere alla crisi delle proprie aspettative.

Così, come noi ci dibattiamo nelle tristi vicende di un continente che unito sta solo sprofondando sotto i colpi delle crisi economiche a catena, il protagonista del disco che in Zoo Station si dichiarava pronto a prendere al volo “quel treno che trasforma il futuro in passato, e ti lascia in piedi alla stazione con il viso schiacciato contro il vetro”, alla fine del disco si ritrova ad ammettere che il buio sta calando sopra tutta la Terra.

Simone Cozzi


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