“Un racconto iniziato 350mila anni fa…” recita il pannello che invita a salire le scale per visitare il Museo Archeologico del Finale nei Chiostri di Santa Caterina a Finale Ligure (Savona). Davvero “profondo è il pozzo del passato”, per dirla con Thomas Mann!
Il percorso che si apre al visitatore si presenta con una teca dedicata al reperto del mese, con tanto di hashtag, primo segnale dell’interesse dei curatori a tenere in contatto i due capi dell’enorme arco temporale, quei lontanissimi ieri dei nostri progenitori e l’oggi che stiamo vivendo noi. Quello della teca “biglietto da visita” è un’intelligente iniziativa che ho visto altrove, per esempio al Museo Archeologico Nazionale di Madrid.
Il mese scorso la vetrina ospitava strumenti litici preistorici, provenienti dagli scavi dell’Arma delle Mànie, a pochi chilometri dal museo. “Un secolare archivio di vicende umane” è la bella definizione che si legge sul sito del Museo Diffuso del Finale di quello che è “uno dei siti archeologici preistorici del Finalese tra i più suggestivi”.

Attraverso reperti – originali o copie –, modellini, manichini e pannelli didattici il visitatore viene accompagnato in un viaggio nel tempo che racconta di sfide per la sopravvivenza, invenzioni e rapporti con l’ambiente naturale. Quanta sapienza, artigianalità ed esperienza dietro una “semplice” pietra bifacciale, uno “strumento universale” di cui sono esposti i due esemplari posseduti dal Museo. Leggiamo su un pannello:
Questo utensile è stato impiegato per oltre un milione di anni da diverse specie umane durante le fasi più antiche del Paleolitico. Il suo successo è dovuto alle diverse funzioni che permetteva di compiere, un vero e proprio oggetto ‘multiuso’ utile per tagliare, spezzare e raschiare.”
Un altro pannello sintetizza e mette a confronto le differenze anatomiche di Homo Sapiens e Homo Neanderthalensis, come il volume del cranio (un poco più contenuto quello di noi Sapiens: 1400 cm cubi, contro 1500), la fronte (verticale invece che sfuggente) e il mento (sporgente piuttosto che rientrante).

Una parte del percorso è riservata al Giovane Principe, le cui spoglie riposano al Museo di Archeologia Ligure a Genova. Qui ci soffermiamo davanti a una copia dello scheletro posizionato come venne rinvenuto nel maggio del 1942 da Luigi Cardini nella Caverna delle Arene Candide. Abbiamo di fronte a noi un cacciatore di 24mila anni fa sepolto con gli onori di un capo, ovvero con un ricco corredo funebre composto – tra gli altri oggetti – da pendagli in avorio di mammuth, conchiglie forate e una lama in selce grigia.
Leggendo didascalie e pannelli veniamo a sapere quanto gli studiosi sono riusciti a scoprire grazie alle loro analisi. Quando morì, il Giovane Principe aveva circa quindici anni ed era alto 170 cm. Dotato di una costituzione robusta e longilinea, si manteneva con una dieta ricca di proteine. Un video di tredici minuti (ne ho visto solo una parte, confesso) ci racconta la sua storia.
Tutte le teche sono interessanti, al pari dei pannelli. Come sempre in un museo dal percorso articolato la singola visita non può bastare ad apprezzare tutto quanto viene presentato. Grazie però alla cura con cui è stato pensato e organizzato, il visitatore avanza nel tempo senza perdere il filo del racconto.
Tutto quanto è esposto parla di “prodotti, scambi, contatti e contrasti”, per citare il titolo di un pannello. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da commentare. Eppure è salutare che un museo si soffermi a sottolineare la complessità della vita: quella preistorica e, a specchio, la nostra. Le istituzioni culturali sono – e devono rimanere – oasi e baluardi di complessità contro i processi di semplificazione che tendono ad appiattire, annullare le differenze, contrapporre in opposizioni manichee situazioni e fenomeni ricchi di sfumature. Luoghi che sono palinsesti di esperienze e vite vissute.
Il termine archivio – che, come potete intuire, è assai caro a chi scrive queste righe – fa capolino in un altro pannello, dedicato a traumi e malattie, il cui studio è possibile per il fatto che lo scheletro è un archivio biologico.
In questo caso mi è tornata in mente la sezione del Museo Archeologico di Milano che mostra gli approfondimenti scientifici curati da Cristina Cattaneo del LABANOF. Le didascalie contrassegnate con un quadratino giallo si riferiscono ai traumi. Quello rosso identifica le artropatie, come l’artrosi degenerativa di cui soffriva una donna di età senile. In blu le anemie, in verde le malattie congenite e le anomalie di sviluppo, in marrone le patologie dentarie. Non c’è niente come constatare che i nostri antenati – anche senza conoscere l’inquinamento e lo stress da traffico – soffrivano come noi per farceli sentire vicini.

Tanti i pensieri che si intrecciano lungo il percorso espositivo, tra quanto viene squadernato nelle teche e quanto si è visto in altri musei. Qui il materiale è disposto in senso cronologico, così un po’ alla volta si arriva all’approfondimento sull’abbigliamento nell’Età del Rame (con riferimento a Ötzi, la mummia del Similaun, su cui tornerò prossimamente, dopo la visita al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano), alle monete romane, alle testimonianze dell’arrivo del Cristianesimo nel Finale, alle ceramiche medievali…
Il modellino del “Villaggio delle Anime” sulla Rocca di Perti mi ha fatto pensare al tema che chiamerei dell’idealizzazione inevitabile. È quella che colpisce coloro che acquistano casa basandosi sui rendering delle agenzie immobiliari: alberi e spazi verdi, parcheggi semivuoti, panchine occupate da persone intente in urbane conversazioni. Poi arriva la doccia fredda della realtà.
Visitando un museo archeologico, mi trovo spesso a fare considerazioni come: Felici i Fenici con le loro casette imbiancate baciate dal sole e il mare a un passo! Ma “dal vero” i loro insediamenti dovevano essere decisamente meno poetici: rumori di tutti i tipi, odori e puzze, rifiuti – ancorché organici – buttati qua e là. Idem, c’è da immaginare, per l’ameno castellaro degli inizi dell’Età del Ferro, abitato dagli antichi Liguri, una via di mezzo tra il villaggio di Asterix e un presepe napoletano. Ottimo, sia chiaro, il lavoro di Andrea Macagno che l’ha realizzato in collaborazione con Giuliano Raspanti.
La stessa “cornice” del Museo Archeologico del Finale è parte della lunghissima storia raccontata nelle sale. In alcuni passaggi in particolare è agevole il dialogo tra passato remoto e più o meno recente: tra quello calcolato in millenni e quello in secoli, per dirlo in un altro modo. Così lacerti di affreschi e scritte moraleggianti convivono con reperti preistorici che rievocano tracce di colore (ho imparato a prestare attenzione alle cosiddette pintaderas).

Da che mondo è mondo, canta il poeta Ferretti, la gente d’Appennino – anche quello ligure qui rappresentato – “sa che tutto passa e tutto lascia traccia”. Vale per l’ambiente e per i corpi dei suoi abitanti. Questo museo fuori dalle vie più battute del turismo (quanti di voi già lo conoscono?) sa come agganciare l’attenzione del visitatore e conservarla lungo un viaggio di oltre trecentomila anni. Anche grazie a un po’ di sana autoironia, come lo specchio che mostra l’Homo Sapiens attuale. Il testo che scorre sotto dice:
Tutti noi siamo Homo sapiens, la specie protagonista nella lunga evoluzione umana di una straordinaria rivoluzione biologico-culturale. Abbiamo prodotto utensili sempre più raffinati ed efficienti, ornamenti personali e sviluppato il senso artistico e religioso”.
Perché ci creiamo così tanti problemi e stiamo distruggendo il pianeta che ci ospita è un quesito a cui il museo non sa rispondere. Ma io sono di quelli convinti che il compito di un museo sia suscitare domande, non fornire risposte.
Saul Stucchi
Museo Archeologico del Finale
Dove
Chiostri di Santa CaterinaFinale Ligure (SV)
Orario estivo dal 15/06 al 15/09
Martedì – domenica 10.00-13.00 / 16.00-19.00Lunedì chiuso
Orario invernale dal 16/09 al 14/06
Martedì – domenica 9.00-12.00 / 14.30-17.00Lunedì chiuso
Biglietti: intero 5 €; ridotto 3 €