Il reportage di Marco Grassano sull’isola di Creta prosegue con la visita del Museo Archeologico di Chania.
Decidiamo di vedere, ora, il Museo Archeologico. Trova spazio, dice la guida, nella cinquecentesca chiesa veneziana di San Francesco, dove, all’inizio del secolo scorso, fu ospitato il primo cinematografo della città: bel segno di rispetto religioso da parte degli ortodossi. Sulla parte sinistra della facciata, incombe un accenno (o un resto) di tozza torre campanaria, con trifore lobulate rese cieche.

Il bancone cassa è subito a destra del portale di ingresso. Entrata gratuita per gli studenti; gli adulti pagano invece 4 euro. Grandioso l’interno, che davvero merita, di per sé solo, una visita. Volta centrale in pietra a vista, retta da arcate blandamente ogivali, mentre gli archi che separano le tre navate sono a tutto sesto.
Tante le teche e le vetrinette disseminate lungo la pavimentazione di marmo grigio. Alcuni avvisi, posti sui ripiani, segnalano che non è possibile fotografare: non si capisce bene se valgano per i soli oggetti limitrofi o per tutto l’insieme. Nel dubbio, ci asteniamo. Tuttavia, mi annoto, traducendo a volte dall’inglese delle didascalie bilingui, i particolari che mi colpiscono o mi commuovono maggiormente.
Lo scheletro di un cagnolino appena nato (new born dog) sepolto in un vaso per la spazzatura (rubbish pot), rinvenuto durante gli scavi ellenico-svedesi del 1984. Monete cretesi provenienti da 23 differenti zecche (mints): d’oro o d’argento, incise con decorazioni geometriche o con profili umani, sono contrassegnate da numeri che rimandano ad altrettante località evidenziate sulla mappa dell’isola alla base dell’espositore.

Ricostruiti sul pavimento e delimitati da paletti uniti da una corda, i mosaici bizantini provenienti dalla Casa di Dioniso: elaborati con raffinatezza, figurativi (con qualche tratto di licenziosità) e geometrici assieme, recano in un angolo, forse a mo’ di titolo, la scritta Πλόκιον.
Statuette in terracotta, sia di epoca classica che ellenistica, riproducenti prefiche (mourners) che, per esprimere disperazione, tengono le mani sul capo; le sagome, smangiate, recano ancora parte della pigmentazione originaria. Affusolati flaconi di alabastro per profumi. Fili d’oro rimasti dall’abito di sepoltura (burial dress) di una donna morta. Monili aurei (golden), di notevole fattura: in particolare, un paio di orecchini da cui ciondolano angeli dalle grandi ali. Un’intera mandria, miniaturizzata, di tori in argilla. Le marmoree statue romane di Diana, di Ercole e dell’Imperatore Adriano.
Trascrivo integralmente, per le sue peculiarità ortografiche, l’iscrizione latina murata nella parete destra: “Honorius Bellus philosophus ac medicus vicentinus hic condidit Blancam Sarracinam choniugem charissimam thesaurum suum”. In quest’angolo, più basso, mi pare di essere nella chiesa di Santa Maria e San Siro, a Sale. Una vasca da bagno (bath tub) usata come bara (coffin).
Da qui transitiamo, superando una piccola rampa, nell’ala “nuova”, con pareti verdognole, dove l’esposizione prosegue. Figure bovine giocattolo, in terracotta, su tavolette ingegnosamente avvitate a grandi, patetiche rotelle, per essere trainate dai bimbi – ormai persi nel nulla – cui erano state offerte in dono. Lampade a olio. Vasellame da tomba della Piana di Messara, appartenente alla collezione Mitsotakis; in luogo dei manici, prolungamenti triangolari che ricordano le orecchie di un gatto.
Nel chiostro o cortile, erboso e solcato da passaggi cosparsi di ghiaia, una fonte veneziana in marmo, composta da quattro maschere feline; più in là, un antico chiosco di macigno, dalla fattura islamica, interamente cieco: si direbbe un erogatore d’acqua, traforato, in basso, da molteplici cannelle, asciutte per sempre.
Usciamo e proseguiamo sul marciapiede. Dopo la parte più recente del Museo, ci infiliamo sotto un arco di pietra, sormontato da una lapide turca, e sbocchiamo in uno spazio oblungo, pavimentato a mattonelle, adombrato da giovani eucalipti e da un ampio tiglio “ch’or con dimesse frondi va fremendo” (in ogni pagina del Foscolo si possono trovare riscontri della sua memoria greca). L’insegna Premium Jewellry Workshop sporge lungo un intonaco albicocca pallido. Folti tavolini di bar. Un’alta cancellata e un muro ci separano dal chiostro in cui eravamo poco fa.
Prendiamo la Zampeliou, verso i vecchi angiporti. Rifacciamo parte del percorso di ieri. Ecco i dispersi mici pezzati, ora stesi di fianco a sonnecchiare sul pavé. La Sinagoga la troviamo di nuovo chiusa. Seduti a diversi tavoli, stranieri – in prevalenza nordici – si cimentano con ricchi piatti di portata, malgrado l’ora insolita.
Vicino alla taverna Ελα, imbocchiamo la straducola, piena di tavolini, sedie e parasole, che sale a contornare il torrione Schiavo. Verso destra, una lunga, dolce rampa in pietra, recentemente realizzata, ci porta sopra la muraglia occidentale, dove un viottolo corre tra cespugli fioriti e alberelli.
Le cicale scricchiano a tutta forza. Estraggo dal borsello la nuova edizione commemorativa – uscita, lo scorso anno, nella collana Lo Specchio Mondadori – dei Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo. Leggo i versi di Alceo riportati sulla quarta di copertina: “Acuta tra le foglie degli alberi / la dolce cicala di sotto le ali / fitto vibra il suo canto, quando / il sole a picco sgretola la terra”.
Ma nella bella e partecipe introduzione del poeta Giuseppe Conte c’è un passo che viene ancor più a proposito:
Alcmane scrive di aver trovato i suoi versi con la loro cadenza imitando con parole ‘quello che aveva inteso / dal canto delle pernici’. Ascoltando un pomeriggio il coro infinito delle cicale in una via alberata a Creta, ricordo di aver avuto all’improvviso la sensazione che anche l’esametro omerico avesse a che fare con quel ritmo, in un compenetrarsi di vite lontane, umane e non umane, nel canto dell’universo”.
Non ci avevo mai pensato, ma questo suono fluente, compatto e durevole mi fa credere che l’ipotesi possa essere vera.
Qualche casupola, seminascosta fra scarmigliate pergole in fiore e difesa dalle sbarre aguzze di un cancelletto. Ciuffi di ailanti. Una serie di gradini in cemento serpeggia verso il basso, tra chiudende e muriccioli. Da qui arriviamo, in pochi metri, all’arco finale della Zampeliou.

Sono le quattro e qualche minuto. Imbocchiamo la via del negozio d’argenti Almeida e la percorriamo tutta. Vorremmo visitare la Collezione Bizantina e Postbizantina (Βυζαντινή Και Μεταβυζαντινή Συλλογή), che la nostra guida raccomanda.
Sfociamo in un piazzale, parte lasciato a pendio incolto e sconnesso, parte adibito a parcheggio. Salendo una comoda rampa di scalini, raggiungiamo il basso edificio tripartito, inciso contro un cielo blu, che ospita la raccolta. Purtroppo, però, ha appena terminato l’orario al pubblico.
Venticinquesima parte – Segue
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano
La foto del mosaico romano è di Wolfgang Sauber (da WikiMedia)
Didascalie:
- Il Museo Archeologico
- Mosaico romano con Dioniso e Arianna
- L’edificio che custodisce la collezione bizantina