Quattordicesima parte del reportage di Marco Grassano sulla Provenza.
Ripartiamo verso sud. L’auto è un forno di lamiere. Procediamo a curve, tra crescenti emergenze di roccia biancastra maculata di penombra e di verde. A un bivio svoltiamo a destra, continuando in blanda salita per un paio di chilometri. Riusciamo ad arrivare proprio alle porte del borgo (di Les Baux, ndr). Uno spiazzo in pendenza con una panetteria. Poi le prime case.
Ci sediamo a pranzare sulla terrazza dell’Hostellerie de la Reine Jeanne, circondati dai tralci fioriti di bianco di un rampicante e da una fascia di sole. Al termine, proseguiamo tra il saliscendi delle vie, fino alla chiesa di San Vincenzo. Facciata e campanile tozzi. Portale sporgente, con le strombature ricalcate dall’ombra. Un fresco quasi eccessivo all’interno, rischiarato dai colori violenti di due moderne vetrate. A pochi metri, la Cappella dei Penitenti Bianchi si presenta parzialmente nascosta da una prospettiva di cipressi, carichi di bacche nocciola, e da una grande croce in ferro battuto.

Case in pietra calcarea, dalle pareti corrose. Oltre la biglietteria del Castello, nella quale sono esposti reperti archeologici e due plastici riproducenti l’antica conformazione della fortezza, si innalzano pareti di roccia, morse, dolorosamente scavate dal vento. Nella ridotta parte vecchia del cimitero, velata di cipressi, di pecci e di ginepri, suscita la nostra compassione una tomba solitaria e anonima, isolata fra il ghiaietto dei corselli, discosta dalle file delle altre sepolture. Senza marmi o abbellimenti, è delimitata da semplici, lineari spondine in ferro battuto, e ornata da due rose rosse di stoffa ormai infeltrita.

Iniziamo ad avanzare sull’enorme prua di roccia del baluardo. Vi hanno ricostruito, in legno, alcune macchine belliche: una catapulta, una specie di gigantesca frombola detta trébuchet, un ariete, scudato in alto per proteggere chi lo utilizzava. Mi paiono armi più idonee all’assedio che alla difesa.

Proseguendo verso tribordo, ecco l’anello residuo, decapitato ed eviscerato, di un mulino a vento in pietra. A babordo, invece, sorge il monumento al poeta contadino Charloun Rieu, citato da Montale in un capitolo del libro di viaggi “Fuori di casa”: ne ricorda la quasi inesistente scolarizzazione, le popolarissime poesie, l’improbabile eppure bella traduzione provenzale dell’Odissea.

La luce è parossistica, ma, in prospettiva, velata di umida caligine. A sud non si scorge il mare, né a est le montagne. Gradualmente, questa opacità si solleva e alla fine si trasforma in un sottile strato di nuvole. In basso, luccicano tutt’attorno campi d’erba falciata, vigne, ciuffi di ulivi.
Torniamo indietro alla Cittadella e alla Torre Saracena. Anche qui, le rocce sono scarnificate dal maestrale e sembrano sculture di sofferenza.
Percorrendo scalette scoscese, disagevoli, dai gradini pericolosamente lisci, saliamo agli spalti e contempliamo il paesaggio, in direzione dei quattro punti cardinali. Le superfici più discontinue sono il mutuo sostenersi delle casette cubiche ai nostri piedi e il ruvido, aspro altorilievo di bianchi, verdi e violetti della Val d’Enfer – denominazione di probabile origina dantesca.
Entriamo nella cappella di San Biagio, che risale al XII secolo, e ci sediamo su una panca, al buio. Viene infatti proiettato un documentario in cui si mostrano e commentano le opere di Van Gogh, Gauguin e Cézanne raffiguranti uliveti. Del resto, la chiesuola è la sede del Museo dell’Ulivo.

Costeggiamo i miseri rimasugli dell’Ospedale Quinqueran e usciamo dall’area cintata. Firmiamo il registro visitatori. Prima di noi, nomi di francesi d’ogni regione, di inglesi, di americani, di brasiliani. Pochissimi i connazionali: solo una famiglia fiorentina. Ci aggiriamo ancora un po’ nella luminosità quasi fievole del piccolo borgo, ormai abbandonato dal sole calante. Ci dissetiamo con la solita birra. Visitiamo vicoli dai muriccioli bassi, aperti su case in ristrutturazione. Il Comune e il suo cavedio torbido di penombra. L’ufficio del turismo. Negozi di arte e artigianato.
Decidiamo di raggiungere la vicina Maillane, villaggio natale di Frédéric Mistral. Vi arriviamo verso sera. Il Centre Mistral – dove ci rechiamo svoltando a destra dopo il cimitero – si rivela un edificio recentissimo, che ospita una mostra di lavori scolastici. La casa-museo del poeta, a poche decine di metri, è invece una pacchiana villa neoclassica, avvolta dal suo bravo giardino borghese e difesa da un’alta cancellata.
Ben più interessante appare (almeno dall’esterno, dato che a quest’ora è già chiusa) la Maison du Lézard, posta proprio di fronte alla villa e attualmente sede della Biblioteca Civica. Vecchio e malconcio maso provenzale, è la vera abitazione di Mistral, quella in cui scrisse “Mirella” e visse fino al matrimonio.
Ci portiamo verso il nucleo antico. Lo slargo nella via maggiore e i vicoli limitrofi sono vietati da transenne di metallo, da cui si sporgono decine di persone. Oggi si celebra la festa di Saint Eloi. Diversi butteri, muniti di picche e montati su cavalli camarghesi, si slanciano al galoppo, per accalappiare e guidare branchi di torelli (novillos) appositamente liberati.

Eludiamo il blocco passando alla silenziosa piazza alberata che troviamo più a sinistra, sulla quale si affacciano la chiesa e il Municipio. Nel mezzo, un monumento con una grande croce di ferro; alla griglia di base è legato, un po’ tristemente, un cavallo solo. Un anziano, con camicia a grossi fiori, attraversa in lenta diagonale lo spazio, appoggiandosi a una stampella. In una cartoleria, che è anche negozio di alimentari, mi compro una vecchia copia ingiallita dei “Mémoires et récits” di Mistral.
Girando all’intorno, fra strette viuzze di casupole in pietra chiara, riusciamo finalmente ad accedere allo spiazzo centrale. La pavimentazione è lorda di sterco equino gialliccio. La novillada è finita. Un gruppo musicale sta disponendo sul palco i propri strumenti amplificati. Ci sediamo al tavolino esterno di un bar. Dentro, la banda del Club Taurino Paul Ricard attacca pasodobles e l’incongrua La cucaracha.
Sorseggiando un pastis, leggiucchio le prime righe del volume appena acquistato: “Per quanto lontano scruti nei ricordi, mi vedo dinnanzi agli occhi, laggiù a Mezzogiorno, una barriera di montagne le cui cime tondeggianti, le erte, le rupi scoscese e le vallette s’azzurravano dal mattino al vespro, più o meno chiare o cupe, in alte onde. È la catena delle Alpilles, circondata d’ulivi come un massiccio di rocce greche, un autentico belvedere di gloria e di leggende”.
Nel frattempo, il complesso sul palco ha attaccato una roboante We are the champions, mentre tutti applaudono l’allusione al Mondiale finalmente vinto dalla Francia. Poi viene abbordata, ancora a tutta forza, Vivo per lei, in un italiano accettabile e in un altrettanto accettabile succedaneo delle potenti voci di Andrea Bocelli e di Giorgia.
Ci portiamo, per la cena, in fondo alla via, nel salone volutamente rustico del ristorante Lou Toupin: una specie di taverna paesana delle nostre, con le sue sedie impagliate, le sue tovaglie a quadretti bianchi e rossi, le sue pareti foderate di legno e i suoi trofei di caccia appesi. Ancora vivande colorite, forti sapori di verdure ben abbinati al leggero amarognolo della birra 1664.
È notte fonda quando, rasentando il portone sempre aperto sugli affusolati cipressetti del camposanto, ci avviamo verso casa.
Quattordicesima parte – segue.
Marco Grassano
Foto di Marco ed Ester M. Grassano
Didascalie:
- Les Baux
- Il cimitero
- Le macchine belliche
- Monumento a Charloun Rieu
- Il museo dell’ulivo
- Festa a Maillane