“Il mistral è ‘bianco’ quando non si
accompagna a nubi e a precipitazioni”.
(Corso di navigazione)
Oltre questo tumulto
che è il vivere, l’amare ed il morire
il cielo all’improvviso si rischiara
ramazzato da un grande vento bianco.
Kenneth White
La Sainte Victoire appare di colpo, vista da est, dietro un ponte autostradale, appena supera-to l’avvallamento tra due colline. In quest’ora meridiana di giugno, il sole non vi ricava ombre: i colori ne vengono ravvivati, evidenziati all’estremo. Qui in Francia le aree autostradali di sosta hanno veramente l’atmosfera leggendaria da oasi nel deserto, da “mondo segreto”, che Julio Cortázar e Carol Dunlop hanno attribuito loro nel magni-fico e curioso resoconto di viaggio Gli autonauti della cosmostrada.
Nell’area di Lançon de Provence, dove i due scrittori si erano fermati trent’anni fa (vedi, nel libro, l’annotazione relativa a martedì 22 giugno 1982), il cielo è velato di nubi, ma molto luminoso. Qualche goccia cade, di tanto in tanto, a pungere lievemente la pelle. Verso nord, ruspe lavorano su un alto terrapieno: la deformazione professionale mi fa pensare a una discarica.
Tra Salon e Arles si odono le cicale scricchiare a tutta forza. La periferia della cittadina (capannoni, un supermercato, un distributore di benzina, una rotonda coperta di verdi variegati…) è calda e vibrante di luce. Seguendo le indicazioni, arriviamo in Boulevard des Lices (Viale delle Lizze, ossia dei tornei medievali) e lasciamo la macchina in un parcheggio a silos. Fotografiamo il monumento ai caduti e saliamo una scalinata da villa barocca verso la parte antica. Ci infiliamo tra stradine di case basse, dalle cieche imposte azzurrine e grigiastre e dall’intonaco pallido, passando accanto ai resti di un arco e a una chiesetta. Arriviamo all’Arena, più chiara di quanto la ricordassi perché dei lavori – tuttora in corso – ne stanno sabbiando la pietra per ripulirla dalla patina del tempo. La sua struttura di piccolo Colosseo ancora in uso rappresenta egregiamente tutta la dolce bellezza di questo avamposto romano sulle rive del Rodano. Ritrovo angoli noti: il ristorante Le Grillon, scorci di via, colpi d’occhio sulla parte più bassa, la chiesa di Notre dame de la Major. Risaliamo il pendio che circonda l’anfiteatro, pieno di turisti e di negozietti che cercano di invogliarli con ricordini, stoffe “tipiche” (un basco a dieci euro), generi alimentari.
In Rue des Arènes, una leggera corrente d’aria rende piacevole la passeggiata, ma la sete si fa lo stesso sensibile. Arriviamo in Place du Forum, con il giallo Café de nuit vangoghiano, la pletora di tavolini, la statua di Frédéric Mistral, il residuo di tempio (parte destra del frontone, e relative colonne) inglobato nella facciata dell’edificio (ora adibito ad albergo) di fronte al poeta. Ci dissetiamo in uno dei bar, all’inizio della via che conduce a Saint Trophime (il locale è deserto, e dobbiamo attendere un po’ il gestore, guardando foto in bianco e nero della corsa dei tori). Andiamo, procedendo ad angolo retto tra alcune viuzze, verso il fiume. Vediamo, dalle grate che le chiudono, le antiche terme. Il ponte Trinquetaille, a suo tempo dipinto da Van Gogh, sul quale dovremo passare per raggiungere gli acquitrini camarghesi. A poca distanza, su un angolo della piazza che il ponte sovrasta, la libreria Actes Sud, dove ritiro un plico di volumi che avevo ordinato per posta elettronica (alcuni titoli di Kenneth White; Le long été di Lorenzo Pestelli) ed esamino l’opera omnia in CD di Leo Ferré e di Serge Reggiani.
Torniamo nella piazza principale e ci spostiamo verso quella del Municipio, col suo obelisco centrale, la ricca facciata di Saint Trophime (l’altra volta vi erano ospitate mostre di dubbio gusto), la ex chiesa di fronte, anch’essa sede di mostre non esaltanti. Un bambino in bermuda blu e camiciotto a quadri bianchi e rossi fila in monopattino; scendendo dal cordolo dell’isola in centro piazza ruzzola a terra e, senza lamentarsi, si rialza subito per ripartire con lo stesso piglio. Andiamo a fotografare i gradini del teatro antico – con un palco centrale per gli spettacoli odierni – e il Foro, poi torniamo alla mac-china, usciamo dal parcheggio (apprezzando l’urbanità degli automobilisti che si fermano per lasciarci reimmettere nel viale) e imbocchiamo al primo colpo la strada che ci porta al ponte e all’Oltrerodano.
Il paesaggio si anima gradualmente di canneti, specchi d’acqua, ciuffi di salicornie. Non si sentono più le cicale, che evidentemente non tollerano gli ambienti salmastri. Appaiono tori neri e cavalli bianchi. Punti di vendita di frutta, in particolare albicocche (“abricots”). Il bivio per Aigues Mortes. Un curioso nome di ristorante: “Mangio fango”. Poco prima della rotonda con la croce-ancora, simbolo della Camargue, giriamo a destra, passiamo oltre un simpatico e ironico “Hotel cavalli” (mangiatoie e abbeveratoi per equini, ma sul muretto esterno i simboli internazionali della TV satellitare, del frigo bar e della piscina) ed entriamo nel parcheggio del “Mas des salicornes”, dove avevamo prenotato. L’albergo è costituito da una serie di fabbricati a un piano, bianchi di calce alla maniera andalusa, allineati tra tamerici in fioritura (nubi di piccole corolle bianche ne spruzzano i rami), oleandri multicolori e canali di acqua stagnante.
Il proprietario è di origine italiana (il padre era di Pesaro) e ricorda vagamente, in versione ipertrofica, il governatore del Piemonte, Roberto Cota. Ci accompagna nella nostra stanza (n° 6), arredata con azzurri e gialli provenzali, passando sotto un nido di strepitanti rondinini.
Una volta installati e rinfrescati, andiamo a visitare sommariamente il borgo. Apprezziamo, ancora una volta, l’educazione degli automobilisti: appena accenniamo a scendere dal marciapiedi per attraversare sulle strisce, si fermano e ci lasciano passare. Anche qui scappa qualche goccia, ma le nubi si aprono subito in squarci di cielo azzurro, sbioccandosi bianche. Individuiamo un piccolo supermercato della catena SPAR con a fianco una paninoteca (ci saranno utilissimi) e imbocchiamo una via pedonale fitta di negozi e soprattutto di ristorantini dall’aria spagnola (ma anche con varie proposte di pizza). Arriviamo al lungomare, con la “Plaza de toros” in versione locale e la costruzione del Primo Soccorso contrassegnata da una croce rossa sulla parete bianca. Saintes Maries è un villaggio indubbiamente turistico, ma soltanto un paio di edifici in tutto, vicino alla plaza, raggiunge i tre piani, e nessuno copre la visuale dell’antica chiesa-fortezza dal tetto in lastre di pietra percorribili dai visitatori.
Ci avviciniamo al tempio lungo vicoli pieni di pedoni che mangiano gelati o che curiosano tra i negozietti. Uno stretto edificio angolare in pietra, che termina in una torretta (era l’antico Municipio), porta inciso sull’architrave dell’ingresso “Musée Baroncelli”. Oltre la chiesa, un parcheggio con la bronzea statua di Mirella in un plastico atteggiamento disperato, a tradurre l’invocazione dei versi di Mistral incisi sulla base del monumento: “O Sànti Marìo, / que poudeis en flour / chanja nostri plour, / clinàs leu l’auriho / devers ma doulour” (“O Sante Marie, che potete mutare in fiori le nostre lacrime, chinate presto l’orecchio verso il mio dolore!”).
Rientriamo in albergo per la cena. Anche qui, alle pareti, immagini di tori e banderillas di foggia spagnola; la musica, però, è per lo più francese, con qualche proposta dei Gipsy King (nelle serate successive, ci omaggeranno con alcuni cantanti italiani, dalla onnipresente Pausini a Ramazzotti, e non solo). Il cibo è buono, equilibrato e di sapori succulenti.
Andiamo ancora in paese per gustarci con tutta calma un gelato serale sulla passeggiata Charles de Gaulle, dopo esserci soffermati di fronte alla possente statua del celebre toro Vovo e aver letto la spiegazione della corsa camarghese, che, a differenza della corrida spagnola, non è affatto cruenta: “Nell’arena, il toro si confronta con i raseteurs, uomini vestiti di bianco muniti di uncini che devono sottrargli i premiati attributi…”. Mi viene da esclamare: “Ma come non è cruenta? Povero toro, che gli strappano una cosa così preziosa e delicata!”, ma segue, a smentirmi, il chiarimento di cosa sono in realtà i famosi “attributes primés”: coccarda, nappe e cordoncini fissati alla base delle corna. Meno male!
Marco Grassano
Didascalie:
– L’Arena di Arles verso Rue des Arènes
– Il Mas des salicornes fra i canali
– La chiesa e il museo Baroncelli dipinti da Van Gogh