Contrariamente alle aspettative, è stato possibile viaggiare ancora. Ma un po’ di cose sono effettivamente cambiate: la mascherina (maska, in greco) onnipresente, il green pass controllato ovunque, il tampone e il modulo da compilare in rete richiesti – da un giorno all’altro, e senza che la notizia fosse diffusa più di tanto – per il rientro in Italia… Eppure, l’esperienza è valsa la pena, eccome!
IL VIAGGIO
L’aereo vola alto, sopra una superficie compatta di nubi cotonose. Scendendo verso Atene, ritroviamo la visione della terra. Case bianche – a gruppi, o più rade – sparse sul paesaggio come manciate di zecchini che brillano al sole. Lungo i crinali (anche quelli bassi, in riva al mare), pale eoliche, collegate fra loro da una sinuosa pista in terra battuta. Le propaggini del Peloponneso. Isolotti. La linea della costa mi fa pensare a una stella marina che protenda le braccia nell’acqua increspata. Sui vertici delle onde, piccole chiazze di spuma, simili a detriti (o forse lo sono davvero…).
L’aeroporto di Atene è bello, luccicante e moderno, come gli altri europei. Non è più lo scalcinato androne messicano o caraibico in cui, nel 2000, avevo atteso la coincidenza per Iràklio.
Decolliamo verso Creta. Densi stracci di nuvole indugiano sulle convalli sfocianti in un mare che si presenta – nella profondità prospettica tra lo sguardo e la linea della costa – velato di fitta foschia. Le nubi paiono nuotare lentissime, come squali a mezz’acqua. Dall’alto, alcune si mostrano sfilacciate, altre tendenzialmente piatte, come isole rocciose nella corrente. Le hostess passano a distribuire acqua e uno snack salato in bustina, dicendo a ognuno Choritsi, o qualcosa di simile.
Sembra di dominare, ora, una prateria bioccosa, che si arresta contro apparenti alture frastagliate: nuvole anch’esse. Il sole si appiattisce progressivamente, si schiaccia quasi, su questa superficie, illuminandola di lato in attesa di immergervisi del tutto. A picco sotto di noi, la marina, sempre increspata, è già cupa. Viriamo a destra, assecondando l’orlo del pianeggiante zatterone di nubi. Oltrepassiamo una nave, minuscola per la distanza abissale. Ci discostiamo dall’ammasso nuvoloso; il sole sta per tuffarvisi, sciorinando sulla sua superficie il proprio arancione infuocato.
Ecco che appare nell’oblò il dosso sporgente di Creta, alla quale ci avviciniamo in discesa. La costa, con baie e probabili isolotti. Anche qui il mare mostra il suo effetto visivo di spuma o residui galleggianti. Il disco solare sparisce di colpo dietro il profilo dell’orografia cretese e delle nuvolette articolate che sovrastano da vicino le alture, confondendosi con esse. L’aeroporto si trova dietro l’emergenza rocciosa che prima mi era sembrata un’isola.
Atterriamo, sbarchiamo e usciamo. Visti adesso da terra, gli orli inferiori delle nubi sono spennellati di rosa. Le masse turgide si fanno sempre più blu, come in un saggio di basicità con la cartina al tornasole.
Mentre scendo sulla cittadina, in taxi (appena seduto, l’autista mi ha fatto disinfettare le mani…), l’alone rosso del tramonto, che aureola l’orizzonte del caseggiato e dei promontori alla sua destra, si illividisce man mano, fino a perdersi nel buio.

LA PRIMA RICOGNIZIONE
Il taxi mi lascia di fronte alle rovine di Kidonìa. Trainando il trolley, arrivo in fondo alla via Kantanoleu, all’ultima porta sulla sinistra: la nota pensione della bionda Sophia Ikonomaki. Che, come convenuto, mi attende, accogliendomi con gioia. Mi chiede se preferisco essere alloggiato in un miniappartamento di cui dispone poco addietro, di fronte al piccolo rudere nel quale, due anni fa, si rifugiavano i gattini meticci. L’abitazione, con struttura portante in blocchetti martellati di pietra chiara, lasciati a vista in alcune parti, è articolata su due piani: dabbasso, un salottino (occupato da due sedie pieghevoli, un divano aperto, una poltrona e un grande televisore piatto), la cucina e il bagno; di sopra, la camera da letto – con soffitto e pavimento in legno dorato – e un terrazzo cui si accede da una porticina in cima alle scale.

Sistemo in fretta le mie cose ed esco. Scendo verso la piazza della fontana, raggiungo in pochi passi la banchina, mi dirigo verso il porto. I bordi dell’intero fronte di case affacciato sulla baia, le alberature dei velieri in rada, i lampioni, gli angoli propizi degli slarghi, i gazebo e le facciate dei caffè-ristoranti sfavillano di festose luminarie. Accanto alla Moschea dei Giannizzeri, hanno allestito un grande albero natalizio e un palco musicale.

All’altezza del Teatro, da una barca amarrata al molo fluttuante odo provenire una musica. Riconosco sorpreso il tema: Se mi lasci non vale, di Julio Iglesias, cantata in greco. Sembrerebbe un richiamo, ma non ne comprendo lo scopo. A bordo del piccolo natante, solo una donna non più giovane, seduta a un tavolino, e un cane fulvo che si aggira per il ridotto spazio della tolda. Nessuna insegna o indizio tali da suggerire qualche attività rivolta ai turisti.

Poco più avanti, di fronte alla Neòria, un giovane dai capelli lunghi e scuri esegue abilmente alla propria chitarra classica, amplificata, melodie di Theodorakis (adesso sta suonando Àsma asmàton, “Cantico dei cantici”, brano che, a mio parere, ha influenzato la composizione di Agora – canção aos novos, dei Madredeus, poi passa a To treno fevgi stis ochto, “Il treno parte alle otto”) e pezzi tradizionali per lo strumento (come Asturias, di Albéniz). Nelle pause, si sgranchisce le dita. Scambia qualche battuta con un gruppetto di amici in transito. Due ragazzine, sedute davanti a lui direttamente sui lastrici, lo ascoltano con attenzione. Depongo volentieri un obolo, meritatissimo.
Prendo a girare nei vicoli attorno all’Arsenale (ecco il Kaffenéion Ta dìo Lux, ecco l’insegna con la pariglia di teste equine, ecco il minuscolo minimarket, dove compro acqua, latte e biscotti per la colazione…) e quindi risalgo in quelli della città vecchia. A pochi passi dall’hotel Nostos, rivedo uno dei gatti “incuffiettati”, con macchietta nera anche sul naso. Sono sommerso dall’emozione di un ritorno che ormai credevo impossibile. Mi pare un autentico prodigio trovarmi di nuovo qui, in questa città che mi si è chinata in cuore con i suoi spazi accoglienti e sereni.
Vado a fotografare l’insegna dell’argenteria Almeida e invio l’immagine sul gruppo di famiglia, in omaggio alla nostra gatta dai molteplici appellativi portoghesi.
Puntata 1 – segue.
Marco Grassano
Didascalie:
- La via dell’albergo
- Luci del porto
- Il concerto alla Moschea dei Giannizzeri
- La barca da cui proveniva la canzone di Julio Iglesias