Pare sia successo a molti scrittori e artisti del Novecento di dirsi, credersi freudiani e scoprire poi in Jung un serbatoio di possibilità, di immagini, di stimoli forse non aristotelicamente convincenti ma funzionali se non a un’improbabile guarigione da un’eventuale impasse psichica alla creatività.
Si potrebbe dire per esempio di Giorgio Manganelli, spostando però il fuoco non su Jung, “un pasticcione”, ma su un suo allievo, Ernst Bernhard, figura centrale, per dire, della mitopoiesi adelphiana e cara a vari scrittori.
Quando il Manga sentì il bisogno di intraprendere l’analisi, credeva appunto di impostarla in chiave freudiana ma, come racconta nell’intervista a Caterina Cardona che apre il volumetto Sellerio Il vescovo e il ciarlatano (Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard), l’amica Cristina Campo gli propose una soluzione diversa che lo scettico autore dell’Hilarotragoedia accolse per finire faccia a faccia con Bernhard.
L’eccentrico psicoanalista tedesco colpì favorevolmente lo scrittore, peraltro assicurandolo sotto l’aspetto economico poiché Manganelli era a corto di danaro e fu ben lieto di sentirsi dire che avrebbe pagato solo quando sarebbe stato in grado di farlo. Bernhard gli squadernava davanti un orizzonte di possibilità inatteso, spostandogli continuamente il centro di osservazione, mettendo in scena elementi totalmente irragionevoli (Manganelli preferisce questo termine in luogo di “irrazionali”).
Quella di Bernhard, di cui sono noti l’interesse per l’astrologia e altre mantiche, era l’antitesi di una disciplina che volesse ricondurre a unità statica l’entropia delle moltitudini di occorrenze che si tende ingabbiare in un io. Questa presa laterale, dagli angoli in apparenza meno significativi, quelli ritenuti trascurabili, cascami e scorie derivative, sono invece lo spazio in cui Manganelli trova il modo di dar vita ai propri incubi, al fantasmatico carillon di lingua e immagini che daranno vita alla sua scrittura. Lì trova finalmente qualcosa da dire (ben lo osserva nella postfazione Emanuele Trevi).
In quella vertigine, casuale o forse incontrollata, cade il segno letterario, contrapposto alla banalità della psicologia capace di produrre solo cattiva letteratura. Come se con Bernhard, che “corteggiava la psicosi”, non si trattasse di ritrovare il filo del dolore psichico e, non fosse in questione il guarire, ma liberare il sulfureo demone dalle parentesi oniriche e farne visione, accoglierne la lingua – qualcosa in più, nel metodo Bernhard (se è corretto parlare di metodo) del semplice insegnamento junghiano, pure se Manganelli riconosce a quest’ultimo “il tocco magico del ciarlatano”, interdetto a Freud, grande scrittore a detta di chiunque, ma stretto nella sua logica controllatissima.
Del resto, per Manganelli (lo scrive in un pezzo dedicato a Jung) “la nevrosi della letteratura è essenziale alla cultura moderna proprio perché è il suo sogno, il suo sintomo, la sua malattia”.
E ad altrettali asserzioni si lasciò andare durante un convegno di medici della psiche che ascoltarono sbalorditi la sua strenua, beffarda e irriverente (ma al fondo sanissima) difesa delle oltranze visionarie della letteratura, menzogna vitale, fuga liberatoria dal senso comune e sfida necessaria nell’agone dell’inferno – quello il suo spazio d’elezione – laddove un Dickens, “uno scrittore di una volgarità unica, funzionante, stupenda” può prendere il lettore “a bambini morti in faccia”.
Nulla può, e nemmeno dovrebbe provarci, la psicologia contro la letteratura. Soprattutto, per uno scrittore come Manganelli la contemplazione della disfatta è una possibilità di cui non poter fare a meno.
Michele Lupo
Giorgio Manganelli
Il vescovo e il ciarlatano
Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard
A cura di Emanuele Trevi
Con una conversazione di Giorgio Manganelli con Caterina Cardona
Sellerio
Collana La memoria
2024, 200 pagine
14 €