Due anni fa, l’ottantenne Uwe Timm, fra i maggiori scrittori tedeschi viventi, dà alle stampe un piccolo libro di memorie, Tutti i miei fantasmi, tradotto da Matteo Galli per l’editore Sellerio, che oltre a fornire uno spaccato autobiografico sulla sua adolescenza interessa per il campo lungo proiettato sulla Germania del secondo dopoguerra.
Il padre, terrorizzato che a scuola lo bocciassero, lo spinge a imparare il mestiere di pellicciaio in un laboratorio prestigioso e le esperienze del giovane Uwe scorrono dall’apprendistato meticoloso alla scoperta dei libri.
Si fa un punto d’onore di descrivere con acribia il lavoro che svolge, l’ambiente, gli spazi, le persone. Come se l’esercizio, il mestiere e lo sguardo che li rappresenta anticipassero il lavorio del futuro scrittore.
Sarte, apprendisti, artigiani navigati e maestri con i loro “anni di esperienza tattile” che sopperivano all’incertezza capricciosa della curvatura delle pelli, l’organizzazione e la precisione del lavoro, lo smistamento e la distribuzione degli incarichi nelle sale, rammentano al futuro scrittore la Firenze medievale, in cui “l’arte della pellicceria costituiva una delle sette arti maggiori per via del materiale prezioso utilizzato, le pelli di ermellino, di visone, di volpe e di castoro”.

Evocazione in realtà un po’ fragile: perché quelli di Uwe sono gli anni in cui l’artigianato sta per lasciare spazio alla produzione industriale in un paese, la Germania, che fatica riprendersi e non ha fatto ancora i conti (a dispetto di una vulgata un po’ superficiale) col suo passato: come da noi col fascismo, gli apparati dello Stato furono tutt’altro che affrancati dagli (ex) nazisti.
Fra i compagni di lavoro v’è chi brancola con i suoi fantasmi che non passano, l’orrore nazi, e v’è chi legge, o ama la musica. Spesso più grandi di lui, adulti, appaiono talvolta come figure enigmatiche o seducenti, stimolano la curiosità del ragazzo che in certi casi si accende e si trasforma in qualcosa di più: nell’immaginazione di chi scopre la vita con le sue impensabili possibilità.
Fra il jazz e la letteratura è così che Uwe conosce e s’innamora dell’ultimo fra gli scrittori che penseremmo di accostargli: il Salinger de Il giovane Holden. All’adolescente l’America appare con la luce di un altro mondo rispetto a quello cupo che gli raccontano i conterranei sopravvissuti al nazismo.
Poi verranno Faulkner e gli altri. Sarà Dostoevskij però a togliergli il sonno, e il suo principe Myškin soprattutto, figura che agli occhi del giovane apprendista che sta scoprendo il fascino della letteratura si staglia in un altrove incantato lontano dalla ferocia del mondo. Con il quale Uwe si confronta aspramente, litigando con il padre per esempio, contestando la sua pretesa di innocenza, la pretesa di innocenza dell’intero popolo tedesco che, sosteneva il padre, “non poteva sapere”.
Inutili i tentativi del narratore di lasciargli sotto gli occhi Lo stato delle SS di Eugen Kogon, che aveva raccontato i lager in prima persona e da subito (chissà perché mai tradotto in italiano). Il padre evita di leggerlo e il conflitto sarebbe durato fino alla sua morte.
Corollario: un rimpianto, quello del figlio, che appartiene a molti, non necessariamente accidente privato, ma frutto velenoso della condizione umana: siamo esseri storici, con quel che segue. Compreso lo stupore di ritrovarsi, oggi – Timm ne parla in alcune interviste recenti -, in una condizione che ricorda troppo gli anni Trenta del secolo scorso per vivere sereni.
Michele Lupo
Uwe Timm
Tutti i miei fantasmi
Traduzione dal tedesco di Matteo Galli
Sellerio
Collana La memoria
2025, 328 pagine
16 €