Ci siamo occupati più volte di David Quammen. A ragione evidentemente, a prescindere da quelle legate al Covid 19 che i lettori già conoscono. Qui, in questo ultimo Il cuore selvaggio della natura che in realtà raccoglie testi – scritti per il “National Geographic” -, più lontani rispetto a quelli noti, prima del divulgatore scientifico che consigliamo di leggere ai fanatici di Giorgio Agamben, spicca il narratore.
Un narratore di paesaggi animali ed ecosistemi, di giungle in cui l’asfalto non dovrebbe poter arrivare ma quando lo fa disintegra porzioni di mondo allucinate, meravigliose e terribili – e così produce metastasi che squarciano il macro-corpo che ci ospita. Perché la natura selvaggia del titolo, ossia “la natura vivente, sul pianeta Terra, nella sua forma più vigorosa, libera, integra, dinamica e diversificata” non va intesa per singoli frammenti, ma quale sistema di interazioni biologiche complesse, “caratterizzato da fluttuazioni che dipendono dall’imprevedibilità quasi illimitata del comportamento individuale e dalla prevedibilità limitata delle leggi biofisiche e biochimiche. Quel che manca alla tigre in gabbia, al piranha sotto vetro e al baobab solitario sono quattro caratteristiche cruciali: estensione, connessione, diversità e processi”.
L’impatto della “civiltà” su un tratto di natura selvaggia complica – riduce, modifica, distorce – l’esistenza del resto (Quammen dichiara subito i suoi debiti con Edward O. Wilson che ha fra le varie cose notabili anticipato di molto il tema cruciale della biodiversità).
A partire da queste premesse teoriche, l’avventura (all’inizio eravamo al passaggio di secolo, di millennio, poi la collaborazione con “National Geographic” è proseguita per un ventennio) e il conseguente racconto di Quammen, attraversano soprattutto l’Africa delle foreste, il bacino del Congo (con l’ecologo Mike Fay e il progetto Megatransect) ma anche l’Amazzonia centrale, la Kamčatka, (“aspra e remota, un’ampia lama di terra conficcata in direzione sud-est nei mari freddi della Russia nordorientale i cui abitanti dipendono dalla pesca del salmone“) l’Argentina disabitata, etc.
Viaggi, esperienze al seguito di studiosi da cui apprende non solo che le giungle impenetrabili tali non sarebbero senza gli insetti ma che dei predatori più efferati non potremmo fare a meno.
Altri gruppi di ricercatori raccolgono sul campo i segni del cambiamento climatico e dell’inquinamento complessivo ma spesso si tratta di esperienze rischiose, dormendo col pericolo di serpenti velenosi, elefanti che nel dubbio su come possa andare a finire afferrano uomini con la proboscide e li fanno volare per aria.
Nella raccolta di questi lunghi pezzi (la traduzione è al solito di Milena Zemira Ciccimarra per Adelphi) l’autore ha inserito anche storie di uomini, a partire da quella di Fay, tipo non comune, testardo, “con una certa predisposizione al comando, un livello di carisma e scaltrezza psicologica che gli consentivano di far avanzare un manipolo di uomini in circostanze difficili”; con lui Quammen attraversa il Congo e il Gabon a piedi, nel fango (obiettivo: “osservare, contare, misurare e, a partire da quelle osservazioni e da quei numeri, comporre un ritratto delle grandi foreste dell’Africa centrale prima che la loro grandezza soccombesse all’inesorabile pressione erosiva dell’umanità”).
E camminando, e dormendo, fra mosche cavalline, formiche, zecche, vipere, termiti divoratrici di tende, Quammen s’imbatte in bracconieri armati ma anche in indigeni ostinati che si battono per salvaguardare i loro luoghi e ricreare le condizioni perché s’interrompa l’estinzione di alcune specie, dai licaoni alle zebre, ai gorilla, fra immense distese di foreste, gole improvvise e sinistre.
Appaiono le regioni dell’Ebola (su cui il nostro avrebbe scritto in Spillover), ed era proprio Fay che attribuiva al virus la causa della minore densità di fauna selvatica. Ancora, orsi bruni, elefanti e sterco disseminato ovunque, scimpanzé che provano a far parte del drappello sebbene in genere sappiano di non doversi fidare degli umani (in un secolo, in Africa ne sono spariti circa 800.000 – chi se ne ciba finanche, chi ha distrutto i loro habitat naturali), e altri, come quelli di Bulindi, assai più bellicosi. E ippopotami che affondano i canini (quelli inferiori misurano mezzo metro) nella barche e le affondano.
Quammen, in questi giorni in Italia, ha ricordato che ha cominciato come romanziere, ed è fuor di dubbio che sappia raccontare, che sa cos’è una costruzione narrativa, ha il senso del personaggio in un cronotopo preciso, della solidità materiale, fisica che lo costituiscono (Faulkner il suo mentore, irraggiungibile va da sé).
Dietro le storie avventurose di questo libro è tracciata tuttavia una linea sulla quale l’autore insiste da sempre e che è la prima che l’umanità dovrebbe fare propria (e la letteratura, non solo scientifica, sembra averlo compreso): smetterla di considerarci padroni del pianeta.
Non stupirsi altrimenti se qualcuno viene a ricordarci che una prossima pandemia è possibile – Quammen è persuaso che potrebbe essere legata al virus dell’Aviaria, dal momento di un eventuale salto di specie dagli uccelli ai terrestri.
Intanto, il suo prossimo libro indagherà “il cancro come fenomeno evolutivo”, ma i filosofi discettano ancora di metafisica e l’ossessione del complotto, dice Quammen in un’altra intervista, è una malattia – andrebbe curata.
Michele Lupo
David Quammen
Il cuore selvaggio della natura
Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra
Adelphi
La collana dei casi
2024, 444 pagine
25 €