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Voi siete qui: Biblioteca » Splendido il secondo volume del “Manifesto incerto” di Pajak

29 Marzo 2021 Scritto da Michele Lupo

Splendido il secondo volume del “Manifesto incerto” di Pajak

È a Venezia che comincia la storia. Evocando la figura di Ezra Pound, il narratore scrive che proprio a Venezia è possibile capire una volta per tutte che “viaggiatori, noi, non lo saremo più”. Nemmeno alla follia è più possibile credere, o alle illusioni. La nostalgia è già dell’attimo appena trascorso: “il tempo di esistere ha smesso di esistere”.

Come con Beckett, non resta che fallire meglio, riprendere un treno, un treno che ci porta a Parigi, fra russi ubriachi che non sembrano avere più nulla da salvare. Parliamo di “Manifesto incerto” di Frédéric Pajak, secondo volume di una serie formidabile (sono al momento nove, nell’originale) che L’Orma Editore sta traducendo per i lettori italiani (sono previsti i primi tre, almeno per ora, il primo è uscito lo scorso anno).

Frédéric Pajak, Manifesto incerto, L'Orma Editore

Pajak, tenendo insieme scrittura e disegni in bianco e nero, costruisce una macchina estetica ibrida e seducente. In questi primi volumi ci racconta Parigi, si sofferma soprattutto sulla figura di Walter Benjamin, che ha viaggiato e intorno al tema del viaggio ha molto meditato.

Importante qui è anche il capofila – non di rado noioso, questo lo dico io – dei Surrealisti, André Breton, capace di scrivere però un libro che ha segnato l’adolescenza (e non solo) di molti: “Nadja”, ispirato a una povera, bellissima ragazza che se la passava già molto male (una vita fatta di camere d’albergo) quando ebbe la sventura di incontrarlo e, allucinazioni dopo allucinazioni, finire in un manicomio.

Il lavoro di Pajak è narrazione, memoir, divagazione saggistica e illustrazione insieme – Pajak ci tiene a negare che il suo sia un graphic novel. Diciamo un esempio di come si possa dare oggi qualcosa di romanzesco, se proprio non sappiamo fare a meno dell’aggettivo (dire romanzo oggi è come dire jazz: vale qualsiasi cosa).

È un lavoro peraltro che può spiazzare – è parte della sua incisività: ci si accorge presto infatti che i disegni non “accompagnano” i frammenti di testo ma procedono per conto proprio, non di rado anzi, invece di coincidere fra loro, collidono. Già dalle prime pagine al salto spaziotemporale che ci proietta sotto il cielo di Parigi negli anni ’20 e ’30, la vitalissima ma sbilenca condizione umana dispersa nella narrazione contrasta con l’impostazione a suo modo quasi classica del segno grafico.

Pur nell’ossessione del nero che tutto incupisce, c’è una compostezza, una figurazione matematica dello spazio, un uso rigoroso della prospettiva – solo tagliata in obliquo – che fa del lavoro di Pajak un oggetto straniante (almeno nella prima parte, molto diversi invece i disegni nel finale, in alcune pagine dedicate alla guerra civile spagnola).

Il girovagare inquieto e spesso frustrato di Benjamin, l’incontro fra Breton e Nadja, il fastidio dello scrittore svizzero Ludwig Hohl che a Parigi non sopporta nulla ma quasi si compiace di trovarvi del fetido dappertutto, o, all’inverso, la seduzione che “la capitale del XIX secolo” – così la definì Benjamin, omettendo che lo sarebbe stata anche della prima parte del XX – esercitò sull’americano Edward Hopper, tutto ciò è detto all’interno di una luce pesante e fosca, ma geometrica, regolare, che si tratti di palazzi o di quais o di viali alberati.

Questa puntigliosa precisione del chiaroscuro proietta Parigi in uno sfondo un po’ alieno – laddove alieno per Benjamin resta il rapporto umano con i parigini (fatica assai a costruirvi amicizie e troppe porte gli vengono sbattute in faccia, quelle degli editori comprese), ma in compenso ridefinisce la città in libri indimenticabili che hanno contribuito non poco al suo mito. Come alieno è il delirio vorticoso in cui finisce per crollare la povera Nadja dopo il breve e lancinante amore con il borioso Breton (amore?, o lei solo un personaggio letterario per lui che nel suo aspetto allucinato vede “la personificazione del surrealismo”?).

Nato nel 1955, Pajak è uno scrittore (un artista, il caso di dire, una volta tanto) di quelli sui quali un tempo si allestivano scenari mitologici: nato in una banlieue, tanti lavori anche massacranti, indigente fino a elemosinare per i boulevard parigini, capace però di tener duro attraverso un’arte, duplice: scrittura e disegno, asciutta, disciplinatissima.

L’intermittenza dei segni, l’intervallo imprevisto da un’immagine (un palazzo) all’altra (un volto), il trascorrere da una memoria autobiografica (l’irrisolto rapporto con la figura paterna) ai giudizi lapidari su Benjamin (“un perdente compiaciuto”) o su Le Corbusier (artefice di “un’architettura autopunitiva”), ecco questa dispersione apparente è in realtà programmatissima, ragione di poetica che tenta di recuperare frammenti perduti dalla storia, vissuta o sognata, o soltanto possibile.

Resta l’oggetto libro, una splendida edizione su carta ruvida che fa risaltare i disegni a china e ci conferma che se oggi facciamo ancora ricorso a una tipografia, deve valerne la pena: il manufatto libro deve essere anche un bell’oggetto, altrimenti meglio il digitale (che poi lo scrivente continui a preferire la carta è solo un personale, trascurabilissimo cruccio).

Michele Lupo

Frédéric Pajak
Manifesto incerto (II volume)
Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin

Traduzione di Nicolò Petruzzella
L’Orma Editore
2021, 224 pagine
28 €

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