“Se si guarda al mondo, a un piccolo pezzo di mondo, e si cerca di osservarlo per quello che è davvero, si comincia a vedere con più chiarezza anche sé stessi. E questo può essere molto liberatorio. A volte può salvare la vita” – così dice a un certo punto Miss Grehan, poetessa e supplente avventizia nella scuola di un piccolo paese irlandese, nel romanzo di Paul Murray, Il giorno dell’ape, da poco tradotto per Einaudi da Tommaso Pincio.
Miss Grehan lì per lì pare seduttiva, specie per Cess Barnes, adolescente accidentata dalle turbolenze dell’età, dai primi amori e dal crollo dello status economico della famiglia, frutto di una cattiva congiuntura economica e delle mosse sbagliate del padre Dickie, proprietario (ir)responsabile di una concessionaria Volkswagen.
Cess non sa ancora che “vedere con più chiarezza sé stessi” può condurci nel verso opposto a quello evocato dalla poetessa. Tant’è che l’ingiunzione di prendere atto della realtà spacca in due gli adulti intorno alla ragazza – non solo Dickie, ma anche la madre, Imelda (chi ricorda Imelda Marcos?), tanto bella quanto invasata dal proprio ego, abituata a spendere senza ritegno, che, costretta improvvisamente a fare spesa al discount (vergognandosene a morte) e a vendere i gioielli su eBay, farebbe di tutto per non vedere, non sapere.

Una storia di famiglia insomma, come nella grande tradizione del romanzo borghese, genere che ha forse storicamente esaurito la sua forza propulsiva ma di tanto in tanto riemerge con prove di un certo peso.
Come in questo caso: il fallimento del nucleo sociale al centro di un immaginario sempre più precario, sembrerebbe di primo acchito ricalcare modi e toni del grande romanzo americano (anche per via della mole, quasi 700 pagine) ma la letteratura irlandese non è affatto estranea a certi temi e alla capacità di renderli con la tempra di una solida architettura e – per lunghi tratti – il dettato di una leggerezza apparente.
Nella complessa struttura del libro le vicende dei quattro protagonisti principali (c’è anche un ragazzino più piccolo, PJ, diverso lui – “era il suo passatempo preferito: fare caso alle cose” – non per nulla intenzionato a mollare tutti e fuggire) tracciano la mappa di una crisi storica dell’istituto familiare che non risparmia nessuno.
Le vicende dei Barnes si annodano dentro il groviglio centripeto dei conflitti interni (ognuno pare soffrire la crisi per conto proprio), e provano a irradiarsi fuori, all’esterno, con esiti spesso anche peggiori – non comprendersi, è la norma, come la fatica di amarsi.
Perché poi con lo scorrere delle pagine appare sempre più evidente che la scomparsa dell’agio economico che l’inettitudine del padre non ha saputo contrastare, aveva per anni messo la sordina a malumori pervicaci e profondi, fatti e misfatti oscurati dal vizio capitale della famiglia e del vivere sociale: massicce dosi di ipocrisia. Che Cess fa esplodere in faccia al padre, colpevole di aver bruciato i suoi sogni, il suo futuro al College di Dublino.
Lo stesso titolo del libro rinvia a un accidente che è invece sostanza velenosa della storia. Rabbia, esacerbate frustrazioni dei due rampolli, crudeltà gratuite dei genitori intrecciano avvicinamenti e fughe frollate da una spinta comune ma disgiuntiva verso il particulare di ognuno: salvezza, com’è ovvio che sia, del tutto illusoria.
Il clamore internazionale di cui ha goduto il romanzo – la bandella riporta il giudizio di un entusiasta insospettabile come Bret Easton Ellis che parla di “grande narrativa realista” – conferma il talento di Murray, scrittore ormai di lungo corso anche se autore di pochi titoli.
Qui mostra una notevole abilità nel modulare toni e registri stilistici, alternando ironia e dramma, innescando le riflessioni sempre all’interno dell’azione, dentro il paesaggio grigio di una piccola zona di terra irlandese, quasi rurale, fra alluvioni, clima impazzito e benessere sempre più a rischio, in cui a Elaine, amica di Cess, pare persino miracoloso che non si ripetano quotidianamente episodi di cronaca nera – ma lei: “io so solo che se non me ne vado da qui mi ammazzo”.
Possiamo così tornare alla pronuncia precedente: ne Il giorno dell’ape si conferma come nonostante l’esaurirsi del suo valore paradigmatico, nulla come il romanzo, il genere nato in seno alla borghesia, ha saputo affondare la lama nella carne marcescente del suo mondo – quando vale la pena, va da sé, e non risolva in mero intrattenimento, o scenario per giochi di ruolo moralistici e corrivi, evenienza che da noi tende a farla da padrona.
Einaudi annuncia che rimetterà in circolazione il vecchio, introvabile Skippy muore: un Murray più comico, caustico, che rileggeremo volentieri.
Michele Lupo
Paul Murray
Il giorno dell’ape
Traduzione di Tommaso Pincio
Einaudi
2025, pp 664 pagine
22 €