Alexandre Vialatte ne I Frutti del Congo (traduzione di Gabriella Bosco, Prehistorica Editore, 2025) descrive il mondo sotterraneo ed estraneo agli adulti degli studenti di un collegio. Il collegio, situato in un posto fuori dal mondo, diventa terra fertile per le storie, per le scoperte, per l’immaginazione pura di tutti i ragazzi che lo frequentano.
Vialatte non racconta la vita del collegio, non racconta come l’io narrante sia giunto nella scuola o la nostalgia che può aver provato. Questo lo lascia ad altri scrittori (al Roger Peyrefitte de Le amicizie particolari, per esempio), il suo romanzo non è e non vuole essere un memoriale, un romanzo di formazione, ma la descrizione di un gruppo di studenti, che, mentre sentono svogliati e un po’ assonnati le lezioni, colgono particolari e li ingigantiscono. E per mezzo di questi cercano di capire qualcosa: un professore, un mondo, la cittadina al di fuori.
Quello che osservano e immaginano serve loro per combattere il grigiore e il vecchiume delle istituzioni scolastiche e costruire una “vera e propria mitologia” che tramanderanno, poi, ai nuovi arrivati.

Del resto è questo quello che possono e devono fare. Il collegio è fuori dal mondo; poche le cose da fare oltre a seguire le lezioni. La città, intorno al collegio, è composta da un pugno di case, una strada che si perde chissà dove, un club privato, e poi c’è il mare.
I ragazzi si distraggono leggendo libri eruditi (come la Conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni, libro per altro citato più volte nel libro) che portano con sé e per mezzo dei quali costruiscono e danno il senso al mondo che li circonda. Così capita loro di sentire, magari a notte fonda o durante una tempesta, gli zoccoli dei cavalli normanni, trovare frammenti di ossa e sospettare che si tratti di animali fantastici, di animali preistorici o di specie ormai estinte.
Insomma Vialatte racconta con rapide pennellate, con una lingua che guizza ‒ che deve aver dato parecchio filo da torcere alla traduttrice ‒, un mondo che non c’è. Veloce è il suo modo di raccontare come a voler ricalcare più l’oralità.
Gli episodi sono alle volte solo abbozzati, proprio perché allo scrittore interessa raccontare le dicerie, gli sberleffi, le impressioni e i (falsi) miti che gli studenti cuciono addosso ai professori o agli altri: piccoli imprenditori, abati e altre figure di spicco di un mondo che è ai margini.
Non c’è, però, alcuna malinconia nelle parole dello scrittore. L’idea di base sembra quella di dover raccontare il momento, la gioia di essere insieme e di fermarsi prima del rimpianto. A lui il merito di non aver descritto l’adolescenza come luogo dorato della vita. Difficile dire quando la storia sia ambientata (sicuramente nei primi anni del Novecento, visto che negli anni Quaranta l’io narrante dice di essere ormai un vecchio).
Questo perché allo scrittore non interessa raccontare i fatti, ma le voci. Come se la sua scrittura si mettesse “all’altezza delle voci dei ragazzi” e trascrivesse quanto diventa via via mito. Lo scrittore racconta tramite l’io narrante le storie, i paradossi e “lo spararne di grosse” di ognuno di quegli studenti di cui rimane solo un nome. Di cui il lettore non saprà la storia né tanto meno avrà mai informazioni, perché a Vialatte interessa l’atmosfera. E lo stormire di quelle delle voci, che raccontano fatti destinati a diventare leggende. Non importa se un professore abbia veramente detto quello che è stato riportato. L’importante è che qualcuno lo abbia raccontato.
Ma il libro è anche fatto di amicizia e di amore, quello che un po’ tutti provano per Dora (una ragazza, che tutti finiscono in un modo o nell’altro, per amare, e di cui si sa ben poco). Ma anche di morte. A un certo punto si viene a scoprire che nella piccola città si nasconde un assassino. A cui si attribuiscono l’uccisione di tutti i bambini e gli adolescenti scomparsi nella zona.
Questo non turba affatto la voce narrante. Il narratore accetta la morte e gli episodi di cronaca nera come un fatto che non si deve né si può eludere. E con un certo interesse voyeuristico gli presta ascolto. “Mi dispiace, ma è così” sembra dire scrittore e il narratore, cosa che per alcuni aspetti lo avvicina al Goffredo Parise de I sillabari. Soprattutto per la scrittura densa e fisica, l’interesse per il mondo segreto dell’infanzia e dell’età evolutiva.
Perché lo scrittore sceglie un titolo così evocativo (e ingannevole, si potrebbe pensare)? Il titolo fa riferimento a una pubblicità che viene affissa sui muri: una pubblicità che viene prima studiata e pensata per vendere le arance, e a cui, poi, viene messa una scritta per propagandare l’arruolamento nelle guerre delle colonie africane della Francia.
I Frutti del Congo è il terzo romanzo di Alexandre Vialatte (1901-1971), che la casa editrice Prehistorica traduce e cura. Autore peraltro di punta di cui i lettori hanno potuto apprezzare Battling il tenebroso e Berger, il soldato fedele che confermano il suo notevole talento. Scrittore (candidato anche al Premio Goncourt) purtroppo solo ora tradotto in italiano e – ahimè – troppo presto dimenticato anche in Francia.
Claudio Cherin
Alexandre Vialatte
I Frutti del Congo
Traduzione di Gabriella Bosco
Prehistorica Editore
Collana Ombre lunghe
2025, 400 pagine
20 €