Ottiero Ottieri e diciamo: letteratura industriale, psicoanalisi, cortocircuiti fra sociologia e alienazione individuale, collettività (politica) e referto clinico, ossessione sessuale e psichiatria.
Quando Ottieri – scrittore che non gode di tutta la considerazione necessaria – scrive il semisconosciuto Cery è lontanissimo da quello che si autodefiniva “intellettuale di sinistra” e scriveva – provando a viverli, ma poi un conto è un operaio un altro chi degli operai parla e scrive – i Tempi stretti della fabbrica. L’alienazione, da concetto ideologico codificato, si tramuta in una faccenda più privata. Non solo la malattia psichiatrica lo induce a vagare attraverso mappe cerebrali sempre più sfuggenti e medici di mezza Italia, non solo Ottieri non può sentirsi organico a un partito o a un’ideologia come capitava ai suoi tempi ai più, ma quando Cery (ripubblicato ora nella consueta, seducente veste grafica da Utopia, impegnato a restituire l’intero catalogo dello scrittore) vede la luce manca poco al buio definitivo (muore nel ’22).
Torna in questo romanzo la lucida follia già vista in altri suoi titoli – nevrosi, alcolismo, erotomania non disgiunta dall’invadenza di un bisogno (un capriccio? un tormento più sincero?) amoroso che si aggira – molto da presso – al nucleo del desiderio: una poetica dell’illusione che vorrebbe saltare codici, corteggiamenti inutili e mettere il personaggio subito in situazione: vorrebbe essere amato, magari scopato (questo non lo dice così) all’istante.
Un sogno ossessivo quanto inconcludente di immediatezza che trova modo di essere più eccitante perché l’ambiente è quello asettico di una clinica svizzera, Cery appunto, fra altri disgraziati, alcolisti, depressi d’ogni risma.
È soprattutto alle depresse che l’alter ego narrativo si rivolge, de visu e scrivendo loro lettere che mai penserà di inviare. Sono a pochi metri da lui, e sono le sole che il protagonista crede possano salvarlo (in particolare la signora Firz e la signorina Mueller, “due archetipi, la giovanissima e la matura”).
Come succede agli scrittori di categoria superiore, la disperazione ossessiva oltre a farsi contenuto stesso della scrittura devìa il dramma in una tonalità comica, non in quanto scelta deliberata ma come esito plausibile del contrasto fra la sofferenza non traducibile in linguaggio del male di vivere e la voglia di scacciarlo via, prendendo la vita di petto.
Il depresso Filippo Ciai cerca salvezza, patisce l’angoscia a ogni momento e ciò lo induce a muoversi “come un terremotato”, sempre a rischio di finire in una voragine, qui nel terrore delle disposizioni imperative di chi nella clinica (svizzera!) deve controllarne gesti e azioni: “Un angosciato ai massimi livelli è irrefrenabile” – come la sete d’alcol da cui dovrebbe liberarsi.
Insomma, l’antieroe della lunga fase psichiatrica di Ottieri vuole curarsi, perché quel dolore è cosa seria, non c’è alcuna posa da “nevrosi di moda”, ma fatica a farlo. Prova a progettare, rimugina sugli errori del passato, a volte si alza pieno di buoni propositi che per lo più s’infrangono nella dura materia del male (“la testa dentro una nuvola scura e gonfia di gas, che premeva sulle tempie”) e solo l’eros lo rianima.
Avviticchiato su se stesso, fagocitato da una mente che dispiega ricordi e fantasie, rumina sulle occasioni mancate, specie quelle mondane di uno che mondano non si è mai sentito e confessa di aver bazzicato luoghi colti e raffinati con la speranza, sempre frustrata, di rimorchiare.
La comicità spietata, l’ironia secca che Filippo, questo “dongiovanni mentale di razza mediterranea”, non risparmia mai a sé stesso o a certi ambienti – quelli letterari, ma anche il variegato mondo di psichiatri, psicoanalisti, “la battagliera psicodinamica” etc – sembra moderarsi solo nella pietas verso le donne agognate perché intrappolate anch’esse in una vita difficile e dolorosa (confidando anche nel fatto che “c’è una grande intesa fra depressi”).
Malattia e scrittura, non potrebbe essere diversamente, s’intrecciano nella vita del personaggio e del suo autore: la scrittura, non è una novità, cela in sé una pulsione erotica, vitale: ci consente di fare i conti con il male e nello stesso tempo di esorcizzarlo. E Ottieri sa farlo in maniera mirabilmente libera (il suo Filippo ricorda come avesse a suo tempo rifiutato l’idea che il successo dovesse passare attraverso plot e colpi di scena).
Ma guai, scrive ancora il narratore, per chi crede che il dolore del malato psichico sia indispensabile al genio: “vantarsi della sofferenza è indice di sofferenza normalissima e dilettantesca”.
Un folle dentro una clinica svizzera, che spera e poco ci crede di salvarsi come non gli era riuscito in altri tempi, in Italia, a Milano, quando l’ansia gli esplodeva come lo scoppio di un cellophane e si ritrovava a correre nudo lungo i corridoi. A scoprire che l’alienazione non uccide(va) solo gli operai.
Michele Lupo
Ottiero Ottieri
Cery
Utopia
Collana Letteraria Europea
2024, 160 pagine
18 €