Terza puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
Dove la Venizelou lascia il litorale perché alla sua destra si allarga un piccolo promontorio, la sporgenza è assecondata da una viuzza di tamerici a ventaglio e di scalcinati condominii in brutto stile ligure balneare. Incuriosito, la imbocco. Termina davanti a un frondoso giardino e di fianco allo svolazzante monumento all’aviazione. Ad angolo retto, verso sinistra, inizia un viale – bipartito, al centro, da una striscia di oleandri – che torna a incrociare la precedente arteria, nella quale proseguo.
Ho camminato parecchio, e sento il bisogno di sdraiarmi mezz’oretta in camera. Osservo di passaggio, lungo le vie, diversi felini: una micia tricolore, un mascherato, un tigrato, un incuffiettato e, uscendo per andare a cena, un’intera colonia intenta a sfamarsi coi croccantini disposti a terra da un vicino di casa.
Volendo arrivare per tempo in cattedrale, mangio più presto del solito, e in maniera più frugale: tre appetitose bruschettine di pane cretese (dakos) e una zuppa di pomodoro (domata), irrorate da una birra locale Alpha, equiparabile alla già nota Mythos.

La chiesa è ancora dorata, nella parte superiore, dal sole occiduo, mentre in basso già la tinge l’indaco dell’ombra. Mi fermo sul sagrato. Verso sinistra sono disposti a schiera soldati in tuta mimetica: un gruppo col basco verde e un altro col basco grigio, separati da un plotone di marinai. Per terra, strumenti musicali a fiato e a percussione. Più vicino a noialtri del pubblico, un gruppo di graduati superiori appartenenti a ignoro quali differenti corpi dell’esercito, in uniforme solenne e guanti bianchi. Mi fanno pensare, con un brivido, alla Giunta dei Colonnelli del 1967. Una fila di devoti entra dal portone destro, mentre altri escono dal sinistro.
Gli altoparlanti continuano a gemere la loro trenodia, intessuta di Kyrie eleison e di altre formule liturgiche che non comprendo.
Tra gli astanti, assai compositi per età e provenienze nazionali, mi incuriosisce una taciturna coppia di giovani nerovestiti, insolitamente alti: lui somiglia allo scrittore ticinese Flavio Stroppini, con un ciuffo ricciuto sulla fronte e un lungo soprabito stile Matrix; lei esibisce un trucco alla Morticia Addams e, in pendant, indossa una lucida giacchetta attillata, gonna a tubino, stivali (a un certo punto, i due si spostano; muovendomi a mia volta, li ritrovo nei pressi della facciata). Trasmettono, chissà perché, l’impressione di un estremo narcisismo.
Di fianco, una famigliola indigena composta dai genitori e da due bambini; tutti quanti sono di statura piuttosto bassa, la mamma anche decisamente mingherlina, con un volto aggraziato che mi ricorda la moglie di un collega che trent’anni or sono avevo al depuratore di Cassano Spinola. Si scambiano sorridenti affettuosità. Nella mia malinconica solitudine, un po’ li invidio, e il senso di vuoto e di tristezza mi si accentua al constatare un’interazione serena anche nelle altre comitive presenti sulla piazza, quasi tutte piuttosto stagionate se non anziane (francesi, tedeschi, inglesi…).
Nuovi ufficiali arrivano e si piazzano accanto a quelli di prima. Giungono, alla spicciolata, personaggi elegantemente vestiti, probabili autorità civili. Un drappello di notabili, accompagnati dalle rispettive famiglie e assistiti da guardaspalle con l’auricolare, fende la folla e si porta al centro dello spazio. Passa una capitana in divisa blu, con berretto di modello femminile e tacchi a spillo. I soldati armati – prima i marinai, poi gli altri – se ne vanno; rimangono i musici.
Scende il buio. Continuano gli inni: Kyrie eleison, Kyrie eleison, Kyrie eleison… Quando le campane prendono a vibrare in staccato i loro colpi multitonali, le litanie tacciono e la banda inizia un’aria lenta, che finalmente mi commuove. Preceduto da una pattuglia di religiosi e chierichetti in paramenti elaborati, ecco uscire il cesellatissimo baldacchino rituale, carico di fiori; gli si accodano i “caporioni” – a cominciare dal barbuto, giovane Sindaco (non lo conosco, ma lo riconosco) – e quindi il corteo che man mano si forma.

Un drone ronzante ci sorvola per probabili riprese. Le campane rintoccano. Petali a terra, come nelle nostre processioni mariane. Arriviamo al semaforo in fondo alla via e svoltiamo per il Mercato Coperto, occupando tutta la strada. Un uomo in polo rossa e calzoni cachi mi sorpassa da destra, svettando abbondantemente su tutte le altre persone e rammentandomi il patetico romanzo di Nico Orengo Figura gigante.

Sostiamo davanti al mercato, in fase di completo rifacimento. Il drone continua a filmarci. Seguo la corrente di persone. Aggiriamo il cantiere recintato, ci infiliamo tra le viuzze e ritorniamo nella piazza della chiesa. La testa del corteo però non c’è, perché, scopro ora, ha percorso un tragitto diverso.
Parecchi minuti dopo, la banda arriva dalla Chálidon eseguendo impeccabilmente la marcia funebre della Terza Sinfonia di Beethoven, dedicata a Napoleone. Mentre noi imboccavamo la nostra disordinata scorciatoia, loro devono aver proseguito fino a svoltare nella Daskaloghianni e quindi nella Sífaka.

Al termine del brano, l’amplificata voce dei celebranti riprende a gemere, mentre le campane scandiscono rintocchi a morto. Il baldacchino, trasportato fin qui da ragazzi in costume tipico cretese, viene deposto di fronte al portone principale. I fedeli, per entrare nel tempio, si curvano e passano sotto. Chinandosi, prelevano a tentoni alcuni petali dalle profumate corolle fresche che guarniscono l’intelaiatura.

Effettuo il passaggio anch’io. Subito nell’ingresso, imito chi mi precede: raccolgo dal cumulo (previo inserimento di un’offerta nell’apposita fessura) tre candele di cera grezza, le accendo accostandole alle altre e le dispongo assieme a queste, conficcandole nello strato di sabbia della base. Poi torno fuori. Via via, tutti i presenti sul sagrato compiono l’operazione, mentre proseguono senza posa cantici e mesto scampanare.
Sull’angolo destro della facciata indugia un capannello di volontari della Croce Rossa – forse presenti per ogni eventualità – coordinati da un panciuto maresciallo a tre strisce in camicia azzurra e con basco, cravatta e pantaloni blu.
Rientro a casa abbandonandomi al flemmatico, chiassoso fluire della via e poi della piazzetta veneziana. Già coricato, leggo l’appassionata introduzione di Bruno Doucey alla silloge Symphonie du printemps. Verso la fine del saggio, mi imbatto in un paragrafo assai utile per la comprensione di ciò cui ho appena assistito:
1936. Anno terribile. In primavera, lo sciopero degli operai delle fabbriche di tabacco è represso nel sangue. Cadaveri e feriti a centinaia. E negli organi di informazione, la foto della madre che piange sul figlio morto, stretto fra le braccia. Sconvolto, Ghiannis compone il poemetto Epitaphios (la parola indica il Canto di lamentazione della Vergine il giorno del Venerdì santo), ben presto pubblicato da un quotidiano e quindi stampato in volume. Una lunga poesia, paragonabile al ‘Canto funebre per Ignacio Sánchez Mejías’ di Lorca. Non c’è da stupirsi che le copie del libro di Ritsos siano confiscate e bruciate. La Grecia si piega sotto lo stivale di Metaxás, che instaura la legge marziale, sequestra poteri e libertà. Sull’altra riva del Mediterraneo, in Spagna, Federico García Lorca viene abbattuto come un cane dalla fucileria franchista”. Mi viene in mente anche Quasimodo, “l’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo…”.
Marco Grassano
Terza puntata. Segue
Didascalie:
- Davanti alla Cattedrale
- L’avvio della processione
- Figura gigante
- La banda mentre arriva eseguendo la marcia funebre della Terza di Beethoven
- I fedeli entrano in chiesa passando sotto il baldacchino