Settima puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
Verso l’alba, come ogni giorno, sento svuotare fragorosamente i cassonetti del vetro. La biancheria non è ancora del tutto asciutta, e la lascio stesa. Quando vado alla Mediterraneo, Kostas si dichiara sempre più entusiasta della lettura. Gli mostro la locandina di To tavli; lui mi segnala trattarsi di un’opera teatrale importante e mi assicura che vale la pena vederla. Spero almeno di riuscire a capirci qualcosa…
Davanti alla moschea, la solita fila delle carrozzelle. Un baio, appena messosi in coda, nitrisce ripetutamente, con insofferenza, quasi con disperazione; sfrega gli zoccoli e china la testa quando il vetturino gli tira le redini. Basta questo a rattristarmi di nuovo per l’inutile, assurda sofferenza nel mondo. Verso l’inizio della Zampeliou, a destra, in un negozio di abbigliamento, un bel gatto biancorosso sonnecchia beato sul banco. C’è anche chi se la passa bene!

Di nuovo in Cattedrale. Stamattina, nessuna cerimonia, solo persone che entrano ed escono. Mentre mi trovo sul sagrato, telefonano due ex colleghi: uno per concordare dettagli circa la presentazione del suo nuovo libro, prevista verso la metà di giugno; l’altro per chiedermi qualche dritta sulla presenza del gelso nella pittura delle nostre zone.
Mi vengono in mente, lì per lì, Pellizza da Volpedo, Alberto Caffassi e Pietro Villa. Lo informo su dove mi trovo. Aggiungo che il cielo è di uno splendido azzurro cristallino e che a pochi metri da me un suonatore di bouzouki sta eseguendo la canzone di Mikis Theodorakis O kaimós [Nota 1], quella interpretata in italiano da Iva Zanicchi col titolo Fiume amaro – così, però, è un’altra cosa…

Passeggio per il porto. Nel prolungamento posteriore del Megalo Arsenali, o Centro di Architettura Mediterranea, ai piedi della scalinata che sale verso il mio rione, una sorta di aula magna accoglie, dal 6 al 12 maggio, il “Terzo torneo aperto di scacchi Mikis Theodorakis“. Evidentemente, il Maestro possedeva anche quell’abilità.
Mi chiama il rabbino David e mi invita a prendere qualcosa insieme, così che io possa consegnargli una copia del mio libro. Concordiamo di incontrarci, nel giro di un quarto d’ora, di fronte al Mercato. Dalla Canevaro, seguendo l’ultima trasversale, dove avevamo svoltato in macchina quando eravamo partiti, raggiungo la Sífaka e tiro dritto per una viuzza dirimpettaia, ad alta densità di vetrine, che termina nella Skrydlof. Poche decine di metri a sinistra sorge il Mercato. Lo aggiro percorrendo, all’inverso, il tragitto del ramo “scismatico” della processione di venerdì. Mi apposto sul marciapiede, in fregio al quale corre una pista ciclabile rossastra.
David arriva poco dopo. A bordo della vettura c’è anche un suo amico biondiccio, sulla cinquantina, appena giunto dal Sudafrica, che dobbiamo lasciare nei paraggi. Dalla Skalidi svoltiamo verso la muraglia, poi subito a sinistra, fra palazzine di pessimo gusto periferico, e quindi, più avanti, a destra, finché ci fermiamo davanti alla chiesa di Aghíos Konstantinos (ecco dunque dov’è, con la sua area attrezzata fresca d’alberi, cinta da un muretto); l’uomo scende qui.
Il rabbino suggerisce qualche locale delle spiagge verso ovest. Torniamo sulla Skalidi e ricalchiamo il mio percorso di ieri. Giriamo in una delle traverse che avevo notato, fino a raggiungere il mare. I posteggi sono però tutti pieni, per la giornata bella e festiva. Continuiamo dunque sul nastro d’asfalto che solca una rada boscaglia di eucalipti e conifere e sfiora altri parcheggi occupati, finché arriviamo alla Paralía Aghíon Apostólon. Troviamo posto in un’area pavimentata grande, in pieno sole. “Ci venivo sempre, i primi tempi in cui ero a Creta e abitavo in questa zona” mi informa David.

Superiamo una specie di piccolo arco di legno e, attraverso un sentierino di mattonelle sciolte, raggiungiamo una costruzione del tipo chiringuito, protesa direttamente sull’arenile. I gestori, in effetti, si ricordano di lui. Ordiniamo una pyta alle verdure e una birretta, e ci sediamo a lato di bagnanti locali – adulti e bambini – in pausa pranzo. Diverse le persone sdraiate al sole o immerse nell’acqua a rinfrescarsi. Decisamente, è già piena estate.
Gli offro il volume. Lui lo sfoglia, individuando alcuni passaggi da sottoporre al traduttore automatico del proprio sofisticato smartphone. Registra una mia dichiarazione, per arricchire, con riferimenti al libro ora effettivamente edito, l’intervista del 2021. Mi mostra esempi dei documentari realizzati nella sua attività professionale: bei lavori, bisogna dirlo. Dice di frequentare poco la Sinagoga, in questi ultimi tempi. Si definisce un liberal, e a proposito dell’azione bellica a Gaza commenta amareggiato: “They are crazy!”.
Più tardi mi riporta lungo la muraglia, perché deve recuperare il sudafricano e condurlo in albergo.
Mentre l’ingresso sul lato orientale della moschea è sempre stato aperto, mostrando un uomo dietro una scrivania con alle spalle la bandiera ellenica (si tratta del Port Office, qualsiasi cosa esso sia), soltanto ora non trovo chiuso l’altro accesso, e visito un’esposizione personale di Aléxandros Chamáouï / Alexander Hamawi, “BA London, MA Royal Academy” – dal 6 al 12 maggio: in corrispondenza del torneo scacchistico. Sono nature morte dai colori decisi, in uno stile che mi verrebbe da definire “iperrealismo simbolista”.
Sento tinnire nitide le campane della Cattedrale, annuncio di qualche funzione. Ci vado. Appare il pope, in un pullulare polifonico di Kyrie eleison e di Christós anesti; i fedeli (me compreso) gli si dispongono di fronte in fila indiana, baciano una piccola croce di legno e vengono copiosamente irrorati sul capo con una frasca intinta nell’acqua benedetta.
Mi metto in coda anche alla bottega di fianco al negozio di icone, dirimpetto al sagrato, per farmi preparare una spremuta di arance che si rivela sopraffina: mai gustato nulla del genere.
Verso la fine della Chálidon, dal lato sinistro, sul gradino di un’agenzia immobiliare, sta accucciato un timido coniglio color panna con le orecchie e il muso sfumati di castano. La sua espressione indifesa mi commuove. Si lascia accarezzare da me e poi anche prendere in braccio da una coppia di bambini. È in compagnia di un mendicante: barba grigia, occhi azzurri, pelle scurita dal sole, scarpe da ginnastica, jeans, giacca militare e berretto da baseball arancione.
Mi domanda, in un inglese malcerto, di dove sono. Gli rispondo. “Roma?” continua; “No, del Nord, Piemonte“; “Torino? Ah, Juventus, Roberto Baggio, Alessandro Del Piero…“. Si commuove a sua volta. Mi fa capire di essere un immigrato rumeno. Forse preferisce tifare idealmente per una squadra italiana prestigiosa che non per quelle indigene. Mi chiede se sono cattolico e dichiara di esserlo a sua volta. Lascio cadere due euro nello zaino posato a terra, per lui e per il coniglio: se lo meritano entrambi.
Riprendo il mio andare a zonzo per la cittadina. Gli ampi servizi igienici del vicolo da cui si diparte la scalinata sono sempre lindissimi, per la presenza costante di due donne delle pulizie che, mentre lavorano, chiacchierano, o danno indicazioni all’utenza. Gli altri bagni pubblici, nella prima traversa della Zampeliou, più piccoli e non presidiati, appaiono appena appena passabili.
Mando a Ester la foto del Kafeníon Meltemi, a ridosso dell’entrata del Museo marittimo, chiedendole se sia per caso un parente dell’editore milanese omonimo, presso il quale lei aveva svolto uno stage formativo. Mi porto alla Sinagoga, chiusa.
Nel tratto di sinistra del vicolo cieco in cui sorge il tempio, una bella tricolorina, grigia, rossa e bianca; nell’altra metà, fissata a un plinto votivo, la foto ricordo di un abitante deceduto, che somiglia a un amico geologo. Tornando nella Chálidon, vedo andar via il mendicante, col coniglio probabilmente infilato nello zaino. Al negozio della Zampeliou, una micia tricolore florida, in prevalenza bianca, sonnecchia spaparanzata appena fuori dalla soglia, mentre subito all’interno vigilano il biancorosso e una nerina. Verso casa, nella Canevaro, all’altezza delle nuove escavazioni, attraversa il pavé una gatta mascherata – nera, coi piedini e il petto bianchi – dall’aria sveglia.
Ceno frugalmente nella taverna di Ghiorgos e mi dirigo al teatro. Questa sera si allungano in cielo nuvole filamentose (opera delle correnti di alta quota), che stendono velature livido-cupree sulla purezza vermiglia-aurea-rosea dell’etra vetrino. I lampioni sono già accesi e il faro illuminato.

Stavolta si entra dal piazzale verso la Neória. Mi avvicino all’uomo non più giovane seduto al banchetto prima del portone. Accanto, un capannello di gente che conversa allegra. Gli dico, in inglese, che voglio acquistare il biglietto per lo spettacolo. Non mi capisce e chiama un altro incaricato, al quale ripeto la richiesta. “It’s free entrance, you can go in” mi replica. Dal corridoio passo nella sala e prendo posto su una delle squadrate, fitte poltrone di velluto rosso. Mi sa che anche stavolta sarò l’unico spettatore non greco.

La scenografia riproduce una cucina domestica tutta grigia, di quelle di un tempo. In tavola, una sorta di grande scacchiera e una bottiglietta di raki coi relativi bicchierini. Dopo un po’, le luci si spengono e gli attori salgono sul palco.
La commedia inizia con due uomini seduti, intenti a lanciare i dadi e a muovere di conseguenza le pedine di un gioco da tavolo. Questa parola italiana si è infatti traslata nel termine Tavli del titolo, che indica quel che da noi viene chiamato Tavola reale o Tric trac (in Grecia è però molto più diffuso). Non comprendo nulla della loro conversazione, ma intuisco che a un certo punto l’uomo di destra vuol farsi preparare il caffè dalla moglie, e la chiama ripetutamente, invano: “Calliopí!“. L’altro deve rispondergli che non c’è, perché è andata a fare la spesa, sicché lui si alza, si sposta verso la credenza e comincia ad armeggiare, per provvedere da solo.

Il dialogo prosegue, a me totalmente ermetico. Il pubblico ogni tanto sogghigna, senza che io ne capisca la causa. Ma riesco a ridere anch’io, quando il padrone di casa si agghinda per uscire e nel lustrarsi le scarpe ci sputa sopra, e più in là, quando, in piedi, mima tre volte il gesto di scaracchiare – piegando il torso di slancio e facendo “puuh!” – addosso all’altro uomo, rimasto seduto. Magari mi diverto così perché ricordo l’episodio analogo capitato a un amico…
Nessuno dei due, però, va via, e la loro discussione continua, cambiando più volte tono, finche riprendono posto per iniziare una nuova partita: e con questa immagine, la recita ha termine.
Tra la piazza e la darsena, quasi all’angolo della Neória, un “mascherone” beve da una pozzanghera. Forse chi dà il cibo ai felini non pensa abbiano bisogno anche di acqua. Tornato in camera, cerco col telefono notizie sulla commedia, e mi faccio tradurre automaticamente quel che riesco a reperire.
Ecco la trama. Una domenica pomeriggio estiva, due cognati sono seduti in un cortile, a Thisio (quartiere di Atene), per una partita di Tavola reale. Uno dei due si guadagna da vivere scommettendo proprio su questo gioco, mentre l’altro, il padrone di casa appunto, è un venditore di lotterie. Sta scrivendo le sue memorie sul periodo dell’Occupazione e della Resistenza, e spera, quando troverà i soldi, di poterle pubblicare.
Facendo leva su tale ambizione, il cognato cerca di coinvolgerlo nel proprio piano: noleggiare una nave, andare nel Biafra, pieno di neri affamati, allettarli a venire in Grecia e qui affittarli alle tenute agricole, che li faranno lavorare nei campi (tema attualissimo, sebbene l’opera – di Dimitris Kehaidis – risalga al 1971, quindi all’epoca dei Colonnelli).
A tale scopo gli occorre però un investimento iniziale: 50.000 dracme. Ha così pensato di mandare la sorella – moglie dell’altro – a servizio in casa di un vicino ricco e cieco, per adescarlo e fargliele sborsare. Il cognato aveva già preso parte a sue precedenti iniziative, rivelatesi fallimentari, e ora rifiuta categorico. I due si arrabbiano, si sfottono, si maledicono, si minacciano, ma alla fine l’aspirazione a pubblicare il libro ha la meglio: si riconciliano, si accordano e ricominciano a giocare.
Secondo l’autore, “è una commedia popolare di personaggi che mettono in risalto la mentalità neo-greca del facile arricchimento“. Mica solo neo-greca…
Marco Grassano
Settima puntata. Segue
Note:
[1] Davvero, il nostro musicista di strada ricorda nello stile Stamatis Kókotas, che possiamo ascoltare qui, proprio in questo brano: https://www.youtube.com/watch?v=eoYHKJ99heE.
Didascalie:
- Il cavallo disperato
- Fiume amaro
- La Spiaggia dei Santi Apostoli
- Il tramonto
- Il teatro Theodorakis
- Il Tric trac