Settima puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.
Su una delle panchine della piazzetta sonnecchia, disteso, un grosso gatto bardo. Un animale visivamente identico, però più giovane, sbuca dal vicolo che conduce al ristorante Ellotìa e balza sopra un sedile più in là, a ricevere le mie coccole.
La rampa di accesso al Bastione Schiavo rimane preclusa da una rete metallica, ma gli indigeni vi hanno aperto un varco: passaggio che mostra chiari segni di essere piuttosto frequentato. Salgo anch’io, costeggiando ciuffi d’erba e arbusti ancora virenti. Altre persone (due donne, un gruppo di ragazzini…) si sono già insediate accanto ai muraglioni perimetrali, chiacchierando di fronte al paesaggio o scherzando vivaci. Scatto foto al porto, al caseggiato, al prato centrale della torre.

Torno giù per andare a visitare il Museo Etnografico della Casa Cretese, nello stesso cortile in cui si trova la chiesa cattolica.
Il massiccio uscio verde, in cima alla rampa di gradini ocra e cremisi, è aperto. Entro. Odo uno scroscio, come di uno sciacquone; guardando verso destra, accanto alla ripida scala di legno scuro, noto una cascatella che precipita in margine al minuscolo allestimento idillico nel quale la statuetta di un cestaio mima il proprio mestiere sulla riva di un ruscello. Arriva l’addetta, abbastanza attempata (e tinta). Incassa i tre euro stabiliti, poi mi consegna il biglietto e una fotocopia multilingue sull’allestimento. Mi accompagna al piano superiore, dove seguo il percorso articolato tra le varie camere che ospitano ambienti domestici ricostruiti con grande dovizia di attrezzi, accessori, arredi, tappeti, stoffe, abiti, foto, biglietti di banca, giornali, libri di scuola… – oggetti raccolti in anni e anni di appassionata ricerca.

Mi viene in mente l’installazione analoga di Cervo, vicino a Imperia, o anche la nostra di Piazza della Gambarina. Un poco di pena me la suscitano i volti butterati, corrosi di alcuni manichini, evidente recupero degli scarti altrui. Saluto la donna, indaffarata a cucire a macchina articoli da esporre in vendita. Per terra scodinzola il suo simpatico bastardino, col pelo lungo. “Stiamo lavorando”, mi dice.
Il tramonto, contemplato dal piazzale del Rosa Nera, è ogni volta diverso – per la mutevole, irripetibile configurazione delle nuvole che coprono il disco solare e ne sono incendiate – ma sempre stupendo. Se, come cantava Omero, l’Aurora ha dita rosee e peplo di croco, il crepuscolo divarica in cielo falangi d’oro che finiscono per sciogliersi in un rossore diffuso e pian piano incupente.

L’ultima sera mi ritrovo attorno una famigliola che parla greco: un adolescente e i genitori. Scattano foto e selfies col cellulare. Mi chiedono, in inglese, di dove sono. Alla mia risposta, la donna – bionda, minuta, graziosa – passa alla mia lingua. Mi racconta di essere albanese e di aver imparato l’italiano – come tutti, laggiù – dalla televisione. Ormai sta a Creta da vent’anni, col suo convivente. Vorrebbero però sposarsi. Ribatto loro che il pezzo di carta non è la cosa più importante…
AL TEATRO “THEODORAKIS”
Avevo notato, fuori dal Teatro Theodorakis, la locandina che annunciava presso il medesimo, ieri sera e stasera (in “Πρώτη παρουσίαση στην Ελλάδα”, Próti parousíasi stin Elláda, cioè, nientemeno, Prima presentazione in Grecia), la “liquid staging installation” – qualsiasi cosa l’espressione significhi (Nota 1) – Elektra 21, con musica di Mikis Theodorakis, coreografia di Renato Zanella e regia (σκηνοθεσία, skinothesìa) di Astéris Kùtulas. A differenza degli altri, quest’ultimo nome compare sul manifesto sia in caratteri greci che latini.

Ovviamente, la cosa mi interessa parecchio. Della tragedia sofoclea – una di quelle tradotte da Salvatore Quasimodo – ho vaghe reminiscenze. Arrivo all’auditorium per le nove meno un quarto. Il portale è spalancato. Entro e dico alla ragazza mora che mi viene incontro di voler vedere lo spettacolo. Mi chiede il green pass e il documento di identità, li controlla, mi fa accomodare in sala: gratis (non me l’aspettavo).
Il palcoscenico è abbondantemente cosparso di fogli consunti e gualciti, fitti di disegni a china. Prendo posto in platea con gli altri spettatori (tutti immascherinati), mantenendo congrue distanze di sicurezza.
Attira la mia attenzione un uomo che arriva in questo istante. Mi ricorda un po’, nell’aspetto e negli atteggiamenti, un mio collega e amico dal multiforme ingegno (musicista, cuoco, appassionato di botanica, artigiano, cultore di memorie contadine, scrittore…).
La rappresentazione ha inizio. In pratica, sulle quattro pareti del teatro si proiettano simultaneamente, sincronizzati con la melodia e il canto diffusi dalle casse audio, altrettanti scenari: uno col balletto ispirato all’opera (Nota 2), uno con le prove di allestimento della coreografia, uno con Theodorakis che dirige orchestra e coro (tuttavia, in alcuni momenti lo si vede anche discorrere seduto accanto a un finestrino nel cui riquadro scorre il paesaggio) e uno con trascritti, di volta in volta, i versi vocalizzati (in greco moderno, di questo mi sono accorto), sovrimpressi ad altre immagini (per esempio, due ragazzine bionde, di diverse età, che si muovono al rallentatore), forse mirate a fornirne un’esegesi.
Mi concentro sulla proiezione frontale, quella del balletto. Pur non comprendendo praticamente nulla del testo, qualche passaggio scenico lo identifico: l’urna con le presunte ceneri di Oreste, gli abbracci che seguono l’agnizione, la risata (isterica, da film horror) con cui Elettra accoglie la morte di Clitemnestra e di Egisto. La danzatrice che la impersona presenta tratti fisici quasi androgini (braccia, gambe e piedi muscolosi; seno schiacciato; bacino stretto) ma ha un volto di intensa, magnifica sensualità femminea, soprattutto dopo lo schizzo d’acqua (lustrale?) che termina l’azione – enigmaticamente inframmezzata da un intervallo in cui alla musica operistica subentrava il brano popolare (sempre, però, di composizione del Maestro) Gonià gonià, accompagnato dal bouzouki.
A spettacolo concluso, si apre una specie di dibattito-cineforum. Mi accorgo, con sgomento, di essere l’unico non grecofono in sala. La discussione è condotta dal tipo che mi aveva incuriosito prima. Per le mie orecchie, parla troppo da tedesco per essere greco, ma troppo fluentemente il greco per essere tedesco. È proprio lui, infatti, il famoso Astéris Kùtulas (controllo col cellulare): figlio di greci emigrati in Germania, produttore di trenta CD di Theodorakis, amico del poeta Ritsos, organizzatore di importanti eventi musicali, regista d’avanguardia, eccetera eccetera. Si trova a tre metri davanti a me, e ho il terrore che mi domandi qualcosa, visto che capisco, quando va bene, una parola su dieci e quindi rimarrei lì, come scrisse Gadda, “muto e acefalo”. Da un’analoga verifica in rete, appuro che anche il coreografo nostrano Renato Zanella, coscritto mio e del mio collega, quanto a curriculum non scherza.
Uscendo, imito l’esempio di altri e raccolgo dal palco due dei disegni, con raffigurato Theodorakis mentre dirige e canta.
Prima di tornare a casa, faccio ancora una passeggiata. Mi fermo a fotografare l’ennesimo gatto – bianco, a rade chiazze barde – accucciato sul davanzale di una delle finestre della Moschea, con le verdi imposte chiuse.
Nota 1: Una spiegazione la si trova sul sito Kissamos News.
Nota 2: Questa parte è visibile su YouTube.
Puntata 7 – segue.
Marco Grassano