Meraviglie d’Afghanistan

Dopo aver riscosso un grande successo di pubblico al museo Guimet di Parigi, è approdata a Torino (per rimanervi fino al 18 novembre, grazie a una proroga che è la migliore testimonianza del successo bissato qui in Italia) l’incredibile e imperdibile mostra sui Tesori d’Afghanistan. Aggettivi tutt’altro che enfatici: una sola teca contenente gli ori ritrovati nelle sei tombe di Tillia Tepe (la “collina d’oro”) basterebbe a motivare una visita all’esposizione.

Rispetto all’allestimento parigino, quello torinese – ospitato al Museo d’Antichità – è meglio organizzato, col risultato di mettere in ulteriore evidenza la qualità artistica dei manufatti e di permetterne un migliore godimento da parte dei visitatori.

L’Afghanistan odierno è un paese martoriato da decenni di guerre, con una società da ricostruire e un’economia ancora in ginocchio, mentre prosperano i commerci illeciti a cominciare da quello dell’oppio. La ferita più profonda è stata inflitta alla cultura, i cui frutti millenari sono stati distrutti, dispersi o nei casi migliori – se così si può dire – trafugati per finire in qualche collezione privata. Per fortuna, o meglio, per l’intervento di qualche scrupoloso funzionario del Museo Nazionale di Kabul, i tesori più preziosi sono scampati alle distruzioni e ai saccheggi, nascosti nel caveau della Banca Nazionale.
La prima sala accoglie i reperti provenienti da Fullol, il cui tesoro è riemerso dal suolo in modo del tutto fortuito, per opera di due ignari contadini. Nel 1966, nelle vicinanze della cittadina di Baghlan, le loro zappe riportarono in superficie alcuni recipienti d’oro, a cui in seguito venne dato appunto il nome di Tesoro di Fullol. La sua importanza, al di là della bellezza dei manufatti, è legata al fatto che il materiale ha permesso di far luce su un periodo storico altrimenti oscuro, quello dell’Età del Bronzo (circa 2000 a.C.) in una vasta zona che comprende l’Afghanistan, la parte orientale dell’Iran e il Turkmenistan. I reperti esposti sono tra le scarse testimonianze di una poco conosciuta civiltà fiorita tra quella mesopotamica e quella dell’Indo, a cui gli studiosi hanno dato il nome di Civiltà dell’Oxus.
Sempre nella prima sala è esposto un capitello corinzio proveniente da Balk, l’antica Bactra, città distrutta da Gengis Khan nel 1220 d.C.
Uno dei pezzi più belli in assoluto è ospitato in una teca della seconda sala: si tratta della placca in oro e in argento con la rappresentazione della dea Cibele, ritrovato nel santuario di Ay Khanoum, sito identificato con la città di Alessandria sull’Oxus. Peter Levi, che alla fine degli anni Sessanta visitò l’Afghanistan in compagnia di Bruce Chatwin, così lo descrive nel suo libro Il giardino luminoso del re angelo, tradotto in italiano da Einaudi:

“La fattura è estremamente raffinata. La testa di un giovane dio solare greco attorniata da tredici raggi, una luna crescente e una stella a sedici punte adorna di raggi dominano un roccioso paesaggio di montagna. Un carro trainato da due sobri leoni rampanti, e guidato da una ragazza in abito ellenico che tiene lo sguardo dritto davanti a sé, trasporta una donna in tunica con una pettinatura a mo’ di comignolo di terracotta […] e veli svolazzanti. La donna fissa l’osservatore: è la dea Cibele. Dietro il carro cammina un sacerdote che indossa un copricapo persiano e una lunga tunica, e regge un ombrello sulla testa di Cibele. […] Il sincretismo religioso trova raramente espressioni così evidenti, con tanti stili mescolati che conservano un altissimo livello artistico. […] Benché non sia affatto escluso che Cibele fosse venerata ad Ay Khanoum prima dell’arrivo dei greci, questo disco d’argento dorato mostra una fusione perfetta di elementi ellenici e persiani in un contesto greco.”
prima parte/segue
Saul Stucchi
Museo di Antichità di Torino
ingresso da piazza del Duomo
angolo via XX Settembre
Orario: da martedì a domenica dalle 10,30 alle 19,30
giovedì e sabato prolungato fino alle 23
Info: tel. 800329329