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Voi siete qui: Teatro & Cinema » “Lost in translation”: due anime smarrite s’incontrano”

8 Dicembre 2015

“Lost in translation”: due anime smarrite s’incontrano”

Se qualcuno mi chiedesse di usare un solo aggettivo per definire Lost in translation, io direi: “delicato”.
Sofia Coppola (figlia di Francis Ford Coppola), ha saputo confezionare una storia leggera e malinconica di due solitudini che si incontrano in una Tokyo sin troppo ricca di luci, colori e di vitalità. La scelta della capitale del Giappone non è stata casuale, perché da un lato rappresentava (nel 2003, anno di uscita del film), nell’immaginario collettivo, una metropoli alienante e impersonale; dall’altro, Tokyo possiede una lingua e una cultura tanto lontane dalla civiltà occidentale da lasciarci smarriti.

Scarlett Johansson e Bill Murray in una scena di Lost in translationI due protagonisti sono entrambi americani. Charlotte è giovane, da poco sposata e appena laureata, in cerca di un suo posto nel mondo; Bob Harris è invece un attore abbastanza noto, con moglie e figli, ma che sta attraversando la classica crisi di mezza età. In un lussuoso e triste hotel del quartiere Shibuya, si incontrano e intrecciano una singolare relazione fatta di una curiosa alchimia di sentimenti: affinità, complicità, empatia, tenerezza, ma, senza sesso.

È questo il colpo da maestro della Coppola: anche quando sono in un letto, da soli, la vicenda non prende la “solita” strada che tutti si aspettano. Sono solo due anime smarrite che trovano conforto e sicurezza l’una nell’altra.

Il tono di questa commedia è comunque deliziosamente agrodolce e discreto. Nella rarefazione delle atmosfere, negli spazi sapientemente sospesi nel tempo, il film possiede anche l’amabile leggerezza di sguardo dell’ironia.

La macchina da presa partecipa in prima persona al racconto, evidenziando spesso con campi lunghissimi la distanza che separa Charlotte e Bob dalla impersonale metropoli che li ospita. Magnifica è la fotografia di Lance Acord e splendida la colonna sonora curata da Kevin Shields.

Lost in translation è la seconda prova registica di Sofia Coppola, dopo il pregevole “Il giardino delle vergini suicide”: dimostra di aver qui compiuto un progresso, confermando le doti già messe in luce nel primo film, soprattutto lo sguardo amorevole verso i suoi personaggi, che si esplicita in psicologie complesse e in dialoghi veri e carichi di umanità.

Ha girato il film in soli 27 giorni, con un budget di appena 4 milioni di dollari; ne ha incassati quasi 120 milioni. Anche la critica lo ha apprezzato, facendole vincere premi in tutti i continenti, tra cui l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale (sceneggiatura, come la regia, della stessa Coppola).

In conclusione, devo però soffermarmi sul titolo. Lost in translation, letteralmente significa “perso/i nella traduzione” e vuole sottolineare le difficoltà nell’inserirsi in una cultura diversa, ma anche le difficoltà nel trovare le parole per definire il rapporto che va crescendo fra Charlotte e Bob. Meglio sorvolare sul “patetico” sottotitolo italiano (L’amore tradotto).

Una curiosità: dopo aver passato dei giorni a “tradurre” in parole la loro storia, nelle sequenze finali del film, nell’unico momento in cui Bob dice all’orecchio di Charlotte qualcosa forse di importante, questo non è udibile. Sofia Coppola ha dichiarato che non c’era un copione deciso, e che Murray e la Johansson sono gli unici a sapere cosa sia stato detto.

Nota : per i pochi che non lo avessero riconosciuto, quando nella camera dell’hotel si vedono scorrere sul televisore immagini di un film (“Marcello, come here”), si tratta de La dolce vita di Federico Fellini.
L D S
L’immagine è tratta dal sito Focus Features.

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