In margine alla mostra “Il cibo nell’arte” allestita a Palazzo Martinengo a Brescia (visitabile fino al 14 giugno 2015), il direttore di ALIBI Online Saul Stucchi ha intervistato il dottor Massimiliano Caretto (già noto ai lettori più fedeli).
La Galleria Caretto è presente in mostra con un’opera. Puoi collocarla nel contesto della mostra e più in generale in quello dell’artista e dell’epoca?
Penso sia necessario premettere che la mostra ha un’impostazione “longhiana”, dunque totalmente incentrata sull’Italia, seguendo, per l’appunto, la visione cara a Roberto Longhi. Pertanto le opere realizzate da artisti stranieri – come il nostro prestito – sono state scelte per il loro legame con la Penisola. Tra gli artisti fiamminghi presenti in mostra, ad esempio, spiccano Pieter Boel e Giacomo Liegi, due personalità che lavorarono a lungo in Italia. Sicuramente, però, nessuno di loro ebbe il ruolo chiave che spettò, invece, a Marten de Vos, che fu una figura fondamentale nello sviluppo della Natura Morta come genere autonomo. Documentato a Roma, Firenze e Venezia (dove collaborò con Tintoretto) già nel 1552, egli fu una delle personalità chiave nel delicato passaggio che la cultura figurativa europea si trovò ad affrontare durante la seconda metà del XVI secolo. Qui seppe stabilire un rapporto di reciproco scambio con la pittura locale, all’insegna di una spiccata capacità di sintesi e di rielaborazione stilistica e tematica, base imprescindibile del così detto “romanismo”, una delle branche del manierismo internazionale. Osservando il dipinto, salta subito all’occhio quello che è il dato più marcatamente nordico, cioè la capacità di trattare qualsiasi particolare come un’opera a sé stante, con quel grado di precisione di cui solo la pittura fiamminga fu capace nel XVI secolo e che rappresentò un imprescindibile esempio per i primi pittori italiani che si cimentarono nel genere della Natura Morta. Sono questi, infatti, i modelli figurativi a cui gli artisti padani, Vincenzo Campi in primis, guardarono per introdurre in Italia il gusto per la narrazione dell’oggetto, che fu una costante dell’arte fiamminga fin dalle sue origini. Il titolo completo sarebbe “Cuoche in cucina (La parabola del ricco Epulone)”, per via dell’episodio presente sullo sfondo, ma per ulteriori dettagli in merito preferisco rimandare all’approfondita scheda che ho realizzato per il catalogo della mostra.
L’opera, inoltre, è tra le più estensive mai realizzate dal De Vos e rivaleggia, per importanza, con il grande ciclo realizzato da Joachim de Beuckelaer (altro pittore specialista in scene di cucine) e oggi conservato a Capodimonte. Il comitato scientifico della mostra, con l’inserimento di quest’opera nel percorso espositivo, ha voluto accennare proprio all’apporto nordico nello sviluppo di questo nuovo genere iconografico.
Come avviene il coinvolgimento di una galleria o di un collezionista privato in una mostra di questo livello?
Di primo acchito, mi verrebbe da risponderti unicamente “su base qualitativa”, che resta comunque la conditio sine qua non perché un’opera in mano a privati faccia presenza in un mostra seria, rigorosa e rispettata internazionalmente, come in questo caso. Se invece parliamo a livello pratico, questo rientra nelle capacità di un’istituzione privata di saper collaborare in maniera intelligente con il mondo delle realtà pubbliche. Come sai, noi instauriamo collaborazioni di questo tipo ogni qual volta è possibile, come nel caso della mostra sui Brueghel di Como/Roma (e sai che all’estero è pratica diffusa e consolidata), ma ritengo che sia sempre fondamentale avere dall’altra parte un interlocutore intelligente e illuminato, come lo è stato per Como e come lo è anche per questa mostra bresciana. Il curatore generale, Davide Dotti, si è dimostrato uno storico dell’arte abilissimo, dinamico, con una visione moderna ed internazionale, a cui non manca il coraggio di schiacciare parecchi sassi, che di certo abbondano nel (troppo spesso) “giurassico” mondo della cultura italiana. Inoltre, da persona attenta agli aspetti concreti, non ha scordato che la presenza di opere private in una rassegna pubblica è l’occasione più ghiotta per i veri studiosi d’arte, in quanto fondamentali opportunità per l’analisi e la scoperta di dipinti altrimenti inaccessibili o difficilmente disponibili. Per quanto riguarda il così detto “grande pubblico”, se l’intero percorso espositivo risulta migliorato dalla presenza di opere private, anche il visitatore a fine percorso ne trae giovamento. Voglio citare, come esempio, il grande Gualtiero Marchesi, rimasto particolarmente colpito dal dipinto di Marten de Vos: il confronto tra i due artisti mi ha fatto molto piacere.
Nella mia recensione ho messo in rilievo soprattutto gli aspetti sociali e storici delle opere in mostra. Confesso: durante la visita di una pinacoteca capisco che per me è arrivata l’ora di uscire quando compaiono i primi quadri seicenteschi con i trionfi di cacciagione e pesci… Si può superare questo blocco verso la natura morta (pescata o cacciata che sia)?
Conoscendoti un po’, la cosa non mi stupisce! Come sempre, vale il motto “dimmi cosa ti piace e ti dirò chi sei” che trovo un’utile chiave d’indagine della natura umana, anche se forse pecco un po’ troppo di deformazione professionale. Però è chiaro che, tendenzialmente, l’esperienza mi ha portato a constatare che se ti piace un dipinto in cui i protagonisti non mangiano, ma anzi esistono in quanto esercitano un Potere (sia esso metafisico o politico), come nel caso dei coniugi Arnolfini immortalati da Jan Van Eyck o una raffigurazione in cui il cibo è visto già come degradante materiale di scarto che straborda da ogni orifizio, come nella tavola di Margherita la pazza di Pieter Brueghel il Vecchio, allora il tuo gusto personale sarà meno incline a lasciarsi catturare da un dipinto incentrato sulla vitale e spassionata gioia di vivere che la convivialità, la tavola ed il vino naturalmente significano ed hanno significato per gli uomini di ogni epoca. Le cucine, le tavole festanti, gli allegri bevitori, sono tutti soggetti che esaltano il cibo come “dato culturale”. Oggi, nell’epoca dello slow food e dell’ossessione per il biologico, questi dipinti dovrebbero essere valorizzati e studiati con più attenzione, perché parlano direttamente alla nostra contemporaneità, esaltando quello che io chiamo un “sano materialismo” di chi si commuove quando assaggia il croccantino di foie gras di Bottura, ma anche del pane caldo con il lardo di Colonnata sopra, piuttosto che un bicchiere di Negroamaro assieme alla persona amata. Le opere della mostra, da un punto di vista critico, parlano proprio di questo e simboleggiano l’importanza della cultura gastronomica europea, salvo che per Warhol: quello parla del degrado industriale del cibo e, come sempre, le sue opere sono connotate in senso fortemente negativo e pessimista. Poi è chiaro che una “taverna festante” sarà più diretta di una “cucina” ed una cucina più facile una natura morta pura, nonostante quest’ultime raggiungano il grado più alto di contenuto, anche se risulterà impossibile per un adepto dei Primitivi, come te!
Ci sono differenze significative tra la pittura italiana e quella che per comodità possiamo chiamare “nordica” nell’affrontare il tema del cibo?
Eccome, moltissime! Tanto che potremmo quasi parlare di due risposte alternative per la medesima domanda. Purtroppo, la mostra non consente un confronto chiaro Nord/Sud Europa per i motivi “longhiani” di cui sopra, ma gli esempi si sprecano.
Prendiamo un dipinto di Giovanni Battista Ruoppolo, grandissimo naturamortista partenopeo: il dipinto mostra una sovrabbondante esposizione di frutta e verdura quasi letteralmente cascata per terra, con la grossa e sugosa anguria al centro, circondata da un trionfo d’uva lucida e turgida, il tutto disposto in apparente disordine per esaltare al massimo la vitalità del cibo ed il dato visivo immediato, complessivo: un autentico canto di gioia al quale manca soltanto di poter essere veramente assaporato dal palato degli spettatori.
Ma tutto cambia quando siamo davanti all’opera di Pieter Claesz “Natura morta con torta di tacchino”. Qui la frutta c’è, ma accuratamente posizionata a destra, dentro un vassoio di porcellana inclinato di circa 30°. Sul tavolo, questa “colazione” offre poche cose: ostriche, qualche fetta di pane bianco, sale e pepe, una torta ripiena e delle olive. Giusto qualche boccone da assaggiare, da “spiluccare” con flemma mentre si sorseggia il vino bianco d’Alsazia contenuto nel roemer (il bicchiere tipico olandese) al centro della composizione. Nell’acquamanile d’argento, a sinistra, si riflette la stanza, rivelandone i segreti come già avveniva in Van Eyck. Ogni cosa è studiata, calcolata e sussurrata allo spettatore, che gode del dato sensibile ma al tempo stesso ne medita la transitorietà: il limone è già sbucciato, i gherigli già aperti, la torta è già spaccata, il vassoio in primo piano sporge troppo, è in bilico. Quanto durerà ancora? Qui non è una semplice Vanitas con teschi posti a monito, sia chiaro, ma un’autentica riflessione neo-borghese, proto-capitalista sul senso della ricchezza, sul suo utilizzo e sulla sua intima contraddizione, possibile soltanto – a quelle date – ad un paese protestante, in vittorioso cammino verso la costruzione della propria autonomia e libertà. Sono opere che invitano a diffidare di chi archivia sbrigativamente la natura morta come “pura decorazione”, ricordando che nessun oggetto è mai soltanto un oggetto.
Qual è la sezione che preferisci tra le dieci del percorso e perché?
Le Cucine, perché è il luogo dove il cibo diventa arte.
A cura di Saul Stucchi
– A Brescia per un’abbuffata di cibo nell’arte: “foodporn” d’antan!