
Ai primi del Cinquecento, durante il dogato di Leonardo Loredan, nasce a Ravenna il monastero rinascimentale di Santa Maria in Porto, opera di esperte maestranze campionesi. Con la soppressione degli ordini religiosi si trasforma prima in caserma per le truppe francesi e austriache e poi in magazzino di pinoli. Dopo alcuni parziali ritocchi, viene completamente risistemato nel 1970 su progetto di Ernesto Girelli. La lineare struttura a due ordini è in cotto di colore rosso vivo, mossa da una serie di finestrelle e raffinati balconcini in pietra. L’ingresso è costituito da un portico a cinque arcate, detto comunemente Loggetta lombardesca, con le candide colonne di marmo greco venato. Oggi il complesso ospita l’Accademia di Belle Arti, il Museo Ornitologico e la Pinacoteca Comunale, che vanta una collezione di tele medievali e moderne. Conserva inoltre una nutrita serie di mosaici eseguiti su cartoni di artisti contemporanei come Marc Chagall, Renato Guttuso, Mauro Reggiani, Bruno Tassinari, Massimo Campigli, Emilio Vedova e altri. Custodisce infine la statua sepolcrale di Guidarello Guidarelli, divenuta negli anni oggetto d’interesse internazionale e di culto a volte persino morboso. Il personaggio nasce intorno al 1450 da una famiglia di radici toscane che si trasferisce nella città romagnola agli inizi del XV secolo. Nel 1468 riceve le insegne di cavaliere dalle mani dell’imperatore Federico d’Austria. Rimane colpito durante la battaglia che si svolge tra Firenze e la Serenissima nel settembre del 1496 sul lago di Bientina. Comunque le lesioni non compromettono il suo futuro in armi. Nell’ottobre di due anni dopo, infatti, è in prima linea nell’assedio di Marradi e partecipa con alcuni capitani di ventura a un consiglio di guerra in Valdarno. Agli inizi del 1499 risulta tra le truppe di papa Alessandro VI, ma ad agosto è in Croazia per combattere l’impero ottomano sotto la bandiera di San Marco. In dicembre torna al servizio della chiesa e milita agli ordini di Cesare Borgia. Verso la fine del 1500 informa i Veneziani sui movimenti dell’esercito papalino in Romagna. Il mese successivo, alla testa d’una ventina di balestrieri, effettua senza successo un attacco contro Faenza. È una delle ultime azioni perché nel marzo del 1501, mentre si trova a Imola, le mitiche Parche decidono di recidere il filo della sua ancor breve ma intensa esistenza.
L’enigma della fine
La città in cui si consuma il dramma è presa due anni prima dal Valentino con l’impiego di 14 mila uomini e sta attraversando un periodo straordinario, se non altro per gli ingegni che accoglie. C’é Niccolò Machiavelli, spedito dai Fiorentini in missione diplomatica. Arriva anche Leonardo da Vinci, chiamato dal conquistatore per preparare i lavori di consolidamento della rocca dopo i danni provocati dalle sue stesse schiere nel sanguinoso assalto. Ed è proprio allora che l’autore della “Gioconda” disegna la mappa che oggi si conserva nella biblioteca reale di Windsor. Lo spregiudicato duca trasforma il centro urbano in una specie di caserma e, per regalare un po’ di svago ai soldati, organizza sfarzose feste da ballo. In questo clima Guidarello viene ferito mortalmente. Secondo alcuni la vicenda ha luogo durante un non meglio precisato scontro bellico. Altri ipotizzano una vendetta del suo signore, eseguita tramite il provvisorio alleato Paolo Orsini. Non per nulla il principe d’origini spagnole e la sorella Lucrezia passano alla storia come abilissimi protagonisti di congiure e voltafaccia. Ma la voce più accreditata racconta che la vittima presta a un certo Virgilio Romano una camicia spagnola lavorata in oro per una riunione in maschera. Dato che non riesce a riaverla, scoppia un contenzioso alla fine del quale è colpito a tradimento dalla spada dell’avversario.
Durante l’agonia detta le ultime volontà chiedendo tra l’altro di essere tumulato nella basilica di San Francesco. Si spegne dopo qualche giorno presso la dimora di Penserio da Passatello, mentre il vile assassino finisce sul patibolo ed è pubblicamente giustiziato con la decapitazione. Si incarica di ottemperare all’atto testamentario del marito la moglie Benedetta del Sale. Il sepolcro, poggiato all’inizio sopra un’arca antica, rimane fino al 1664 nella seconda cappella a destra della chiesa, detta di San Liberio. Poi passa nella sezione del tempio riservata agli uomini illustri e nel 1827 viene trasferito nella sede ottocentesca dell’accademia. L’ultimo spostamento ha luogo negli anni Settanta del secolo scorso, quando si decide la collocazione odierna.

Per tre secoli le fonti locali parlano della lastra funeraria come uscita dalle mani dell’emiliano Giacomello Baldini. A tutt’oggi, però, è noto un solo documento relativo al lavoro. Si tratta di un pagamento di 350 ducati a favore dell’artista Tullio Lombardo, datato 21 giugno 1525. Per cui nel 1886 una minuziosa ricerca dello storico dell’arte Corrado Ricci respinge il riferimento consueto proponendo invece, anche sulla base di due manoscritti inediti del Settecento, il nome dell’unico destinatario ufficiale del compenso, originario del lago di Lugano ma attivo soprattutto nel Veneto con il padre Pietro ed il fratello Antonio. Da allora in poi l’attribuzione è data per sicura e la fama del marmo raggiunge in breve livelli eccezionali. A gonfiare le dimensioni del fenomeno contribuiscono in particolare alcuni scrittori di grido. Comincia lo storico e pedagogista Gino Capponi, che nel taccuino di viaggio annota d’avere ammirato una delle più belle sculture mai viste e aggiunge: “Quella testa, a cui rimane tuttora come l’impressione della vita tolta violentemente, ha tale verità sublime che non ho parole per lodarla. V’è, direbbesi con frase romantica, la vita della morte”. Ma l’apporto decisivo giunge con ogni probabilità dalla fatata penna di Gabriele D’Annunzio. I legami con l’antica capitale bizantina in Italia si concentrano negli anni a cavallo fra il XIX e il XX secolo. È la fase in cui cerca notizie per la tragedia dedicata a Francesca da Rimini, che compone e porta in tournée lungo tutta la Penisola. Il lavoro si riallaccia esplicitamente all’episodio del quinto canto dell’Inferno dantesco presentando i rampolli delle famiglie Malatesta e da Polenta con una scenografia che intende riprodurre le vicende ed il fasto di quelle corti in un linguaggio esemplato sui testi letterari del Trecento. Per la preparazione non solo si documenta con scrupolo sui commenti più famosi, primo fra tutti quello di Giovanni Boccaccio, ma compie accurate ricerche sul posto. Nel maggio del 1901 è in città con l’allora inseparabile Eleonora Duse.

La visita ai monumenti si svolge insolitamente tra il discreto riserbo sia della coppia che della popolazione. Si reca tra l’altro al sepolcro dell’Alighieri, ma non appone autografi e scrive soltanto il motto “Per non dormire” con la data del giorno. Frutto collaterale della ricognizione è “Il silenzio di Ravenna”, inserito alla fine del secondo libro delle “Laudi”, dedicato a Elettra. Nella visione del Vate l’urbe romagnola, al pari della vicina Ferrara, non vive che nella rimemorazione del suo passato. E, come in quella estense, il ricordo è affidato alle “pietre nude”, ai materiali spogli delle tombe in cui si cela l’antico “sogno di voluttà”. Sono i bianchi sarcofagi a custodire l’anima più profonda di una terra che è stata testimone della fine d’un impero e della nascita e del tramonto di nuove dispotiche dominazioni. Sono i sepolcri dei “violenti”, ossia degli ultimi sovrani di Roma e dei primi re barbari, di Galla Placidia e di Teodorico, ma anche di intrepidi condottieri rinascimentali. È dunque celebrata non solo per il “funebre tesoro” che conserva, ma anche per il “mistico presagio” di futuri eventi che l’autore avverte nello stormire delle fronde della contigua pineta di Classe, segno d’inedite glorie affidate a “un altro eroe” chiamato a “tender l’arco verso l’infinito”.
In chiusura, quasi a cornice del discorso, si incontra un sonetto che riprende le tematiche centrali della silloge: il mutismo delle vetuste città, in contrasto con la potenza, lo sfarzo e la ricchezza di un tempo, e l’auspicio che un giorno esse possano ritornare all’alba d’un nuovo splendore. La lirica si apre proprio con la mesta raffigurazione dello sfortunato paladino dei Borgia, che giungono dalla Catalogna e riescono a occupare la cattedra di San Pietro con due membri del casato. Le accorate sembianze dell’effigie si riaffacciano al poeta, che scrive: “Guidarello Guidarelli / dorme supino con le man conserte / su la spada sua grande. Al volto inerte / ferro morte dolor furon suggelli”. Racchiuso nell’armatura, l’eroe “attende i dì novelli”, quando sarà rievocato in vita da una voce che “per le vie deserte / chiamerà fuor degli avelli” gli spiriti più valorosi. Il simulacro sembra dunque il compendio dell’intera città, che appare popolata di misteriosi presagi, “gravida di potenze, tragica d’ombre, taciturna e balenante”. E sulla sua storia millenaria i resti del padre della lingua italiana sono come un balsamo che feconda e rigenera: “Sopra te che sai, passa nel vento / come polline il cenere di Dante”. Contemporaneamente si diffonde la leggenda popolare secondo cui le donne nubili che baciano la statua si sposano entro l’anno. E la nomea, con una celerità fulminea, valica mari e oceani. Il simulacro, equiparato a un portafortuna dell’amore, diventa in breve personaggio chiave di servizi giornalistici, muto interprete di film, oggetto di isterismi e protagonista d’una letteratura d’appendice. Il South Kensington Museum di Londra chiede un calco in gesso dell’opera, imitato poi dal Museum of Fine Arts di Boston e da Buenos Aires. A un certo punto il direttore dell’accademia Sigismondo Romanici è costretto a fissare i costi delle riproduzioni per le sempre più numerose domande di copie. Quanto all’originale, nel maggio del 1935 è invitato al Petit Palais di Parigi per la “Mostra d’arte italiana”. Purtroppo lo spostamento non si verifica sotto una buona stella. Il marmo subisce un’incrinatura e, una volta esposto nella capitale francese, viene baciato con eccessivo trasporto da una signora con le labbra cariche di rossetto. La superficie rimane macchiata e, nel tentativo di ripulirla, perde la cromìa naturale. Per questo motivo si arriva a una decisione spiacevole ma drastica e nel 1938 Vittorio Guaccimanni scrive alla sovrintendenza d’arte medievale e moderna dell’Emilia Romagna rifiutando di spedire la scultura alla rassegna del ritratto di Belgrado. Da allora i rapporti diretti con il pubblico sono sostituiti con i siti Internet, tramite i quali i contatti superano a oggi i cinque milioni.
Intanto continua il dibattito sulla paternità dell’effigie. Pochi anni or sono Andrea Bacchi risolleva la querelle sostenendo che si tratta di un lavoro dell’Ottocento. Per rimettere in discussione l’autenticità del monumento si citano i rilievi tecnici dell’esperto in corazze antiche Claudio Scala, che conosce ogni segreto di cotte e gorgiere, golette e mognoni, schinieri e spallacci. Almeno tre sarebbero i particolari che rimangono incomprensibili o che lasciano assai dubbiosi. Le scarpe “a lame metalliche” dovrebbero corrispondere alla tipologia detta “a zampa d’orso”, ma così come sono eseguite risultano di pura fantasia, prive degli elementi funzionali che collegano di norma le calzature alla gambiera. L’elmo presenta un pennacchio del tutto improbabile, una celata esclusivamente ornamentale ed è privo del barbotto, ossia l’attrezzatura impiegata per proteggere la zona inferiore della testa. Gli speroni, infine, non rivelano alcun rapporto con quelli in uso nell’epoca rinascimentale, che sono a stella e molto più elaborati nelle branche.
Simili annotazioni portano a un riesame globale della lastra funeraria sia sul piano sincronico che diacronico. L’aspetto più vistoso è costituito dalla mancanza di unitarietà stilistica. Al verismo accentuato del volto si contrappone una resa sommaria e semplificata della figura, che ripropone un’iconografia canonica. A suscitare le maggiori titubanze è la malìa del viso, dovuta alle naturali ma complesse orditure di livelli che si offrono alla luce, mentre gli occhi e la bocca sembrano impercettibilmente schiudersi a ogni spostamento del punto d’osservazione. Promana un patetismo forse sopra le righe, tanto da essere ritenuto inspiegabile seguendo la parabola estetica di Tullio Lombardo. Le sopracciglia analitiche, il modellato da maschera di cera, la crudezza della chiostra dei denti non trovano analogie nella lunga attività tridimensionale dell’artista cinquecentesco.

Soltanto Franca Zava Boccazzi trova qualche indizio anticipatore nel monumento al doge Andrea Vendramin, specie nel modulo fragile del fraseggio plastico che contraddistingue le gentili Virtù del sarcofago, nella lieve sfumatura commossa dei faccioni bambini e nella gravità turbata dei guerrieri. Qui si nasconderebbe un timido preavviso di quell’estenuazione sentimentale incarnata nei lineamenti dell’armigero ravennate. Una certa critica sottolinea inoltre la banalità del cuscino e del drappeggio del “Lit de parade” su cui giace disteso l’eroe. Non è nemmeno lontanamente paragonabile all’araldica raffinatezza delle creazioni coeve, come per esempio il mausoleo di Gaston de Foix eseguito dal Bambaia e ora conservato al Castello Sforzesco di Milano. Si pensa pertanto che la statua sia d’età romantica. Forse gli epigoni del ceppo familiare Giulio e Antonia Rasponi, dopo avere prestato nel 1827 l’opera alla neonata Accademia di Belle Arti, decidono di ritirare il simulacro commemorativo, di cui sono proprietari. E qualcuno, per riempire l’improvviso vuoto, scolpisce il fortunato falso, che uno studioso puntuale come Federico Zeri definisce tipico dell’“art troubadour” in voga tra il 1830 ed il 1840, all’epoca di Carlo X.
Se l’ipotesi è fondata, un giorno potrebbe anche riapparire il vero Guidarello. Gli esperti dicono che con ogni probabilità è meno gradevole, ma sicuramente diverso. Si tratta comunque d’un sogno ormai ridotto al lumicino, visto che è trascorso troppo tempo. Anzi, sembra una speranza mista al timore, perché si deve mettere in preventivo anche il pericolo d’una amara disillusione. D’altro lato, il legame con il presunto intruso vanta una solidità e un trasporto che altrove conoscono pochi riscontri. L’ultima riprova decolla nell’estate del 2004 con un articolato progetto in due tappe. La prima, coordinata dal conservatore del Museo d’Arte della città di Ravenna Nadia Ceroni ed eseguita a cura della Scuola per il Restauro del Mosaico, vede partire un cantiere d’intervento aperto al pubblico e che richiama una folla di almeno 1500 persone. Dopo le preliminari analisi chimiche per identificare le sostanze organiche da rimuovere, l’operazione provvede alla pulitura della lastra sepolcrale seguendo il principio ormai imprescindibile della non invasività, ossia rispettando al massimo struttura e superficie della figura. La seconda, chiamata fase documentaria, ha lo scopo dichiarato di recuperare informazioni bibliografiche, archivistiche e storiche per conoscere meglio il personaggio, chi ha ideato e prodotto la scultura e la diffusione dei suoi multipli tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento.
Lorenzo Iseppi
Le foto della statua di Guidarello si devono alla gentile concessione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna. Si ringrazia la direttrice della Pinacoteca di Ravenna, dottoressa Nadia Ceroni.
Didascalie:
- La sede ravennate dell’Accademia di Belle Arti
- La basilica di San Francesco, che originariamente ospitò il monumento sepolcrale di Guidarello
- La statua funeraria del cavaliere rinascimentale
- Il patetismo del volto dell’opera, attribuita a Tullio Lombardo
- Il candido sarcofago di San Vitale
- Lo spallaccio sinistro dell’armatura
- Particolare della maglia metallica
- La pulitura del viso
- Il coevo monumento funebre di Gaston de Foix
- I tecnici impegnati nel restauro del prezioso marmo