ALIBI ha intervistato Gianni Di Santo, autore di “A tavola con Dio”, edito dalla AVE di Roma.
Nei suoi vagabondaggi culturali e gastronomici è stato in qualche modo influenzato dai lavori (e dall’approccio) di Piero Camporesi?
A dir la verità non ci ho mai pensato. Nella mia biblioteca è ben visibile La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, libro cult per chi si intende di cucina, curato proprio da Piero Camporesi.
E certo, a riannodare i fili delle sue opere, da Il pane selvaggio a Il libro dei vagabondi, da Le officine dei sensi a Le vie del latte, scopro sapori, assaggi, pellegrinaggi letterali e geografici, curiosità e ironia affini al grande maestro. Che ricordiamo oggi, a dieci anni dalla morte. Ma aggiungo un dettaglio. Sulla mia scrivania di lavoro avevo un foglio di giornale ritagliato un mese fa e che per forza di cose era finito sotto carte e libri. Proprio l’altro giorno, facendo un po’ di pulizia, ho recuperato la pagina. Ebbene, il titolo dell’articolo tratto da la Repubblica recitava così: Letteratura e cucina. Camporesi, critico controcorrente. Non le sembra una strana coincidenza? A questo punto non resta altro che andare alla più vicina libreria e comprare l’opera omnia del critico letterario. Chissà cosa altro scoprirò su di lui e sulla sua insaziabile voglia di vivere “bene”.

Qual è stato l’incontro più intenso?
Il libro non l’avrei mai scritto se non ci fossero stati i tanti incontri che ho raccontato. Incontri ravvicinati con volti, luoghi, mura, pentole, fornelli, ricette e anime che, dinnanzi al calore della tavola, sono riusciti a dimenticare i “guai” quotidiani e allargare lo sguardo “oltre”. A tavola si è tutti uguali: re e contadini, giullari e filosofi. Così mi è parso di capire che dietro la convivialità della tavola si nasconda ancora (qualche volta si vede anche) un Dio comune a tutti.
Ricordo tre incontri in modo particolare. Il primo, con il priore di Bose, Enzo Bianchi. Enzo, oltre a essere uno delle personalità di spicco della cultura europea, è anche un abile chef. Da lì, da quel pranzo fatto al monastero di Bose, è nata l’idea del libro. Il secondo incontro è con l’autore della prefazione, o dell’”accompagno”, come lui preferisce dire. In realtà con Erri De Luca ho familiarità da molto tempo: la sua casa nella campagna romana è uno di quei rifugi anti-città che mi fanno ricordare le tradizioni di una volta, i volti sorridenti e sobri dei nostri nonni. A casa di Erri non manca mai il buon vino rosso che Dio ci manda, un prosciutto di montagna e dell’olio contadino spremuto a freddo. E la sua splendida “mamma”, un’ottantenne in piena forma che sa mettere in riga i tanti amici più giovani che vanno a trovare Erri nella sua dimora.
Ma l’emozione che mi ha dato Paolo Rumiz non me la scordo più. Eravamo in un giorno di maggio in una Trieste bellissima, in piazza Unità, davanti a noi solo il mare, e un sole che spaccava le pietre. E lui che raccontava di Gerusalemme. Un pizzico di paradiso in un angolo di est d’Europa che ruminava incontri, viaggi, strade di pace e abbondanza. Rumiz quando parla di Gerusalemme sembra un “posseduto”, è impossibile resistergli, si resta ammaliati dalla sua ansia errante, un po’ laica, un po’ religiosa. Mi ha disegnato il porto di Istanbul con una nave in partenza (o in arrivo?) su un libro e me lo ha regalato: che volete di più?

Ci sono stati incontri poco fortunati? delusioni?
Qualche volta le porte non sono state aperte, e l’ospite, rispettoso, ha fatto marcia indietro. Ma non ne parlerei perché credo che chi mi ha detto “no, grazie” abbia avuto le sue buone ragioni. Però, però… beh, insomma, una piccola delusione l’ho avuta con l’Eau vive a Roma, un ristorante gestito dalle Lavoratrici Missionarie dell’Immacolata. Sarà l’atmosfera francese, sarà che non vogliono parlare con nessuno (a dir al verità ho trovato invece interviste e racconti su di loro), sarà che il conto finale non è stato del tutto convincente. Insomma, la fattura mi è sembrata alta per un ristorante che fa della preghiera il suo fondamento.
Può darci qualche consiglio che non ha trovato spazio nel libro?
I posti che non ho frequentato sono ancora molti. Per esempio non ho raccontato che a Lanuvio, vicino Roma, c’è il monastero di santa Chiara, famosissimo per i suoi prodotti biologici, specie per le salse e i sughi. Vendono su internet e sono una realtà all’avanguardia nella commercializzazione di prodotti biologici a basso prezzo.
Un altro indirizzo è sicuramente l’Eremo di San Giorgio a Bardolino sul Garda. Vale la pena andarci solo per la sua posizione geografica, sopra il lago di Garda: uno spettacolo. Lì, tra il silenzio degli ulivi e il rumore del vento, il mio amico dom Franco Mosconi, priore di questo antichissimo monastero dei camaldolesi, produce un olio di ottima fattura. Pur essendo un frequentatore dell’eremo ho saputo di questo olio solo a una presentazione del mio libro: in effetti il priore non mi aveva detto niente. Conosco però bene dom Franco, e capisco: in realtà la sobrietà, il silenzio e la preghiera, sono il suo stile di vivere la Chiesa e la comunità. Tanto clamore non gli interessa. Va bene così.

La lentezza, la ricerca del prodotto “buono, locale e tradizionale”, l’approccio culturale al cibo, non rischiano di essere soltanto una “moda”, una reazione all’omologazione imposta da globalizzazione, grande distribuzione, massificazione?
Certo che sì. Il rischio c’è. Come quello che tutto ciò che è made in “monastic” sia vero. Allora do un consiglio: diffidate delle imitazioni. Non prendete per oro colato tutto ciò che svariati monasteri cominciano a proporvi. Come non lasciatevi abbagliare dall’innumerevole mole di agriturismi che si vedono via internet. Esistono gli originali, quelli che coltivano le loro tradizioni “oranti” da parecchi secoli. Quelli che praticano l’agricoltura davvero, senza scopi di basso lucro, che vogliono bene all’ambiente dove vivono. Esiste una spiritualità della tavola e dell’ospitalità che va al di là dei prodotti commerciali. È lì che bisogna volgere il nostro sguardo. Scoprire, nei nostri pellegrinaggi anche domenicali, chi ti guarda con il sorriso che non chiede niente. E che magari, dietro lo scaffale, tiene nascosta l’ultima bottiglia, l’ultimo goccia di nettare divino. Desideroso di condividerla con l’ignaro ospite.
Quali sono state le reazioni al suo libro?
Il libro è pubblicato da una piccola casa editrice, l’Ave. Non ha mezzi per competere con le grandi potenze dell’industria editoriale. Nonostante ciò il libro ha avuto un’eco mediatica sorprendente e che, io stesso, non mi aspettavo: dalle radio e tv pubbliche ai grandi giornali, in più sto facendo delle presentazioni in tutt’Italia. Vorrei solo segnalare l’articolo di Corrado Belci su Il Piccolo di Trieste e la segnalazione di Gianni Mura nella sua rubrica “Mangia e bevi” de Il Venerdì di Repubblica: due bei regali che ho molto apprezzato.
Nei suoi viaggi ha visitato molti luoghi dell’Italia “minore”, di provincia. che futuro vede per questi luoghi? saranno raggiunti e sommersi dal turismo di massa?
No, non credo. Dove la strada è tortuosa e non diventa autostrada, dove il padrone di casa è un po’ “burbero” e non ti accoglie con un finto sorriso, dove l’ospitalità è sacra come una volta e il conto non è quello di un albergo a cinque stelle, dove la preghiera predilige il silenzio al rumore dei “gruppi”, dove il salmo è canto di lode e non tristissima giaculatoria da catechismo ante-Concilio, dove c’è tutto questo il turismo non attecchisce. Per fortuna. Basta avere un po’ di pazienza, armarsi di buone guide e buone letture, innamorarsi di un’Italia che ancora non ha gettato la spugna appresso allo banalizzazione dell’idea stessa di viaggio e di incontro.
Basta tendere le orecchie. Ascoltare il vento, accorgersi che vicino a te stanno cantando il blues dell’anima. E cuocendo qualcosa al camino, lo vedi dal fumo che esce dal comignolo. A quel punto ci accostiamo. Spunterà un buon bicchiere di vino. E sarà sorriso.
A cura di Saul Stucchi