Scriveva Erodoto che la storia si registra con i propri occhi, nulla poteva sapere, in quel tempo lontano, degli strumenti che oggi regalano alla vista una lunga memoria e la possibilità di condividerla con chi non c’era.
Il 2 settembre preparavo le valigie per il mio viaggio di fine estate e intanto moriva un gigante della cultura e della musica neogreca, geniale abbastanza da comporre un’aria che dallo schermo del cinema è entrata dritta nella leggenda: oggi non c’è taverna greca in cui non riecheggi un sirtaki, quasi fosse un ballo tradizionale greco che invece non è. Mikis Theodorakis si lasciò ispirare da un ballo popolare molto più lento, l’hasapiko, e vi infuse la follia dionisiaca del greco Zorba, narrato da Nikos Kazantzakis e interpretato da Anthony Queen nel celebre film di Michael Cacoyannis (1964).
L’occasione del viaggio era un corso di aggiornamento su temi umanistici antichi e recenti che traevano ispirazione dall’anniversario della Rivoluzione greca del 1821, la sede delle lezioni Chania, cittadina posta a pochi chilometri da quella Galatas che diede i natali al padre di Theodorakis e nella quale il musicista ha preteso d’essere sepolto.
Sulla spiaggia di Stavros
Si dice che il caso non esiste: il contenzioso con la famiglia ha occupato la giustizia ateniese per qualche giorno e la cerimonia di sepoltura si è svolta proprio quando io e Francesca Martinez (collega non meno impulsiva e appassionata, musicologa, a cui si devono alcune di queste immagini), abbiamo potuto assistervi senza interrompere le attività del corso, in un’assolata pausa pranzo.
Due giorni prima avevo impiegato quella stessa pausa per macinare in un paio d’ore in tutto la tratta che ci separava da Stavros, la minuscola spiaggia della scena finale del film di Cacoyannis, quella in cui l’inglese Basil prega l’amico Zorba di insegnargli a ballare.

Quando ero a Stavros, il tempo incerto scoraggiava i bagnanti, sulla spiaggia poco frequentata per la stagione si è alzato un gran vento e la massima del greco Zorba, “ci vuole un po’ di pazzia, se no non potrai mai strappare la corda ed essere libero”, sembrava quasi vera.
La cerimonia a Galatas
A Galatas, il 9 settembre, la giornata era calda e luminosa. Il taxi si è fermato a un chilometro e mezzo dalla chiesa per via dei posti di blocco (tanta gente, tante personalità, spiegava l’autista) e ci guidavano su per la collina le parole diramate dagli altoparlanti, per un capriccio della sorte le stesse su cui ci si concentrava a lezione: demokratia, eleuftheria (“libertà”, ndr).
La piazza in cui ci siamo infilate un po’ a tradimento ha mostrato una folla disciplinata e in lutto: non solo politici e giornalisti, ma anziani, famiglie con bambini che stringevano un fiore in mano e i fedelissimi con il sariki, copricapo nero a frange, tradizionale segno di lutto degli uomini dell’isola, quelli che all’uscita della bara hanno poi intonato canti senza musica e sciolto un po’ di emozione anche in noi, testimoni casuali del commiato ad un uomo forse controverso per la sua storia politica, ma tuttora molto amato.

Quella di Theodorakis è una storia di passioni politiche intense e qualche volta contraddittorie, difficili da comprendere (per chi non conosce la politica greca, mi dice la mia guida, Eleni Sarikosta).
La carriera controversa del “comunista instabile” è ricostruita nel ritratto firmato da Dimitri Deliolanes sul Manifesto del 3 settembre, giorno successivo alla morte del compositore: 96 anni e una lunga storia, dalla resistenza antinazista e dalla lotta contro la giunta dei colonnelli all’opposizione contro Syriza. Conta però che la cultura greca abbia salutato un genio paragonabile al nostro Ennio Morricone e anche qualcosa in più, dal momento che la sua musica ha accompagnato, per oltre mezzo secolo, la storia di un popolo più sofferente e complesso della cartolina turistica che lo accompagna, e ha reso popolari e immortali le parole di poeti neogreci non meno grandi degli antichi che si studiano nei nostri licei.
Ritsos ed Elytis
Uno di questi è Iannis Ritsos: Theodorakis ne musicò l’Epitaffio, un testo che riprendendo il genere popolare e letterario del compianto materno per la perdita del figlio (molto diffuso in tutta l’area mediterranea e, in epoca bizantina, incentrato sulla figura di Maria), lo lega all’immagine di un giovane operaio, ucciso dalle guardie del generale Metaxas nel 1936, durante uno sciopero a Salonicco.
La canzone composta nel 1958 incontrò una forte opposizione politica da parte del governo ultraconservatore, che nell’opera riconosceva l’impegno dell’intellettuale comunista che durante la Seconda guerra mondiale era stato incarcerato e torturato, ma non intendeva rinunciare alla lotta.
La mia seconda menzione va a Odisseas Elytis, l’autore dell’Axion Esti, raffinatissimo poema di ispirazione religiosa che Theodorakis (ateo, ma profondamente spirituale) musicò nel 1966 e che conobbe un enorme successo di pubblico, confermando la forza di un progetto culturale: trasformare in arte la musica popolare e rendere l’arte accessibile anche al pubblico meno colto.
Quando nel 1967 la Giunta prese il potere, Theodorakis fu imprigionato e torturato, ma la stima internazionale gli risparmiò la vita e consentì alle sue canzoni di viaggiare clandestinamente in patria e fuori, nonostante i divieti del regime: sono gli anni in cui mise in musica anche i versi di un altro celebre e meno fortunato dissidente, l’Alexandros Panagoulis protagonista di “Un uomo” di Oriana Fallaci.
In Italia Theodorakis è stato anche “Il ragazzo che sorride”, cantato da Iva Zanicchi e Al Bano. E chissà se chi ascoltava questi due interpreti della nostra canzone ha mai saputo che nella loro voce riecheggiavano, dopo ben due passaggi di traduzione, i versi del poeta irlandese Brendan Behan.
La “To gelasto paidi” (questo il titolo dell’originale del 1962) ebbe successo in patria per la voce di Maria Farantouri e divenne l’emblema della resistenza alla dittatura dei colonnelli, quando il ragazzo che sorride fu identificato con i giovani occupanti del Politecnico di Atene, sgomberato il 17 novembre del 1973 dai carri armati. Ve la offro nella versione cantata da Maria Faraouri, in uno dei primi concerti di Theodorakis dopo la caduta della Giunta, nell’ottobre 1974.
Non saprei dire cosa cantassero gli uomini in lutto nella piazza assolata del 9 di settembre. Ma il nostos (“ritorno”, ndr) del vecchio che ha scelto Creta per il suo riposo perpetuo e l’accoglienza commossa della sua gente, ha, non meno della sua musica, qualcosa di epico che supera le contingenze di questo tempo senza più eroi. E l’emozione, non servirà dirlo, è arrivata anche a chi, come me, si è scoperto cronista per caso.
Elena Rausa