L’editoriale “L’ALIBI della domenica” torna a occuparsi delle didascalie. Questa volta esprimendo qualche critica.
La settimana scorsa ho speso qualche parola a “elogiare” le didascalie, strumenti utili a comprendere meglio quanto vediamo esposto nella collezione permanente di un museo o in una mostra temporanea. Naturalmente, come tutte le cose, esiste anche l’altra faccia della medaglia.
Il precedente editoriale si apriva con le parole del curatore della PhotoGallery e della Collezione MAST di Bologna Urs Stahel. E oggi torno a quella interessante sede espositiva bolognese – un modello esemplare di intervento di un’azienda privata nel settore della cultura – per ricordare un’osservazione fatta giusto un anno fa da Thomas Struth alla presentazione stampa della sua mostra “Nature & Politics”.

Girando per i musei per scattare le sue “Museum Photographs” Struth aveva notato che i visitatori si concentrano più sulle didascalie che sulle opere! Per questo motivo le sue fotografie in mostra al MAST non erano accompagnate da didascalie, riportate invece sul libretto di sala.
Sia detto per inciso: nella mostra attualmente in corso “Uniform. Into the Work / Out of the Work” le didascalie ci sono, eccome!

Lo scorso dicembre il giornalista de Il Sole 24 Ore Marco Carminati ha illustrato all’Accademia di Carrara di Bergano la storia del “Taccuino” di Giovannino de Grassi, uno dei “libri più belli del mondo”. La vicenda di questo splendido libretto è stata complicata anche dalla errata interpretazione di alcune informazioni.
Il giornalista ha ricordato che il suo professore di storia dell’arte all’università invitava a non leggere le didascalie, nel migliore dei casi imprecise e incomplete, ma spesso completamente errate e fuorvianti.
Alcune critiche
Durante questa settimana ho visitato un paio di musei e altrettante mostre. Mi sono imbattuto in centinaia di didascalie e mi sono appuntato, di volta in volta, alcune osservazioni critiche.
- Caratteri: sono spesso troppo piccoli, pensati per un pubblico di giovani dalla vista d’aquila. Senza arrivare a utilizzare il tanto vituperato font “Comic Sans”, i curatori a volte ricorrono a caratteri poco intelleggibili.
- Supporto inadatto, posizione scomoda, distanza eccessiva: sono altri difetti che noto con frequenza. Avete mai provato a interpretare le didascalie scritte in bianco sul vetro delle teche del Museo Egizio di Torino? Alcune sono pressoché illeggibili. Vogliamo poi parlare dei riflessi delle luci sulla superficie dei cartellini plastificati?

- Stringatezza e prolissità sono i due corni del dilemma. A volte una riga è tutto quello che possiamo leggere di un oggetto, magari la semplice descrizione: “elmo crestato etrusco”. Beh, che sia un elmo crestato lo vedo! Che sia etrusco lo posso indovinare dal fatto che è esposto nella sala del Museo Archeologico dedicata agli Etruschi… Altre volte, invece, abbandoniamo per resa da affaticamento la lettura del piccolo trattato enciclopedico in cui è stata trasformata la didascalia.

- Impaginazione. Sembra una piccolezza, ma leggere righe lungo quattro colonne non è agevole. Me ne sono reso conto muovendo gli occhi avanti e indietro lungo alcune didascalie della mostra “Mummie. Viaggio verso l’eternità” che chiude giusto oggi (2 febbraio 2020, ndr) al Museo Archeologico di Firenze.
- Gli errori e le imprecisioni sono a volte segnalati sulle stesse didascalie, magari con correzioni a mano (che a me personalmente fanno una certa tenerezza, ma quasi mai una buona impressione). Le informazioni riportate sui cartellini possono essere datate, ormai superate da nuove scoperte di cui però non viene fatto cenno.
- Chi visita mostre e musei con una certa curiosità (indipendente dalla professione che svolge) lamenta l’assenza dei numeri d’inventario delle opere esposte. Senza di essi è quasi impossibile identificare con sicurezza il pezzo, approfondirne la storia, fare collegamenti con altre opere fuori dalla collezione.
E voi che ne pensate delle didascalie?
Saul Stucchi