Il reportage di Marco Grassano sulla città di Porto prosegue con la quarta parte della gita a Braga.
Il tratto di Rua dos Bombeiros Voluntários che percorriamo ha bruttezze architettoniche suburbane. Al primo crocicchio, la freccia marrone ruinas romanas de Cividade indica – a destra – una breve salita che arranca di fronte a un triste condominio in cui si lascia progressivamente indietro: un parrucchiere, una cartoleria, un fotografo e l’officina riparazioni Escapcar, specializzata in marmitte e accessori.
Le Termas Romanas sono segnalate, subito dopo, da un pennone penzolante. Sorgono oltre una cinta costituita in parte da un muretto color nocciola e in parte da una schiera uniforme di barre di legno ingrigito, piantate fitte.
Varchiamo un portoncino marrone ed entriamo nella biglietteria, cubica, rivestita esternamente con assi come i fienili dei pionieri americani. Arredamento essenziale: scrivania in legno di pino, poltroncine, tavolo su cui sono offerti opuscoli in vari idiomi, bacheca.
Mostriamo i nostri biglietti al custode, che ne annota la matricola sul registro. Seduto accanto a lui, un uomo alto e grasso, suppergiù dei miei anni, con occhiali dalle lenti spesse, ci chiede in inglese di dove siamo. Gli rispondo, in portoghese, che siamo italiani. Chiacchieriamo. Ci dice di essere un ex militare di carriera e di parlare sette lingue perché ha partecipato a varie missioni – Bosnia, Guerra del Golfo, Libano – a fianco di truppe internazionali, anche italiane.
Gli racconto, a mia volta, di aver trascorso, vent’anni fa, un pomeriggio nel bar della caserma di Trafaria, dove avevo degli amici, a bere birra alla spina col maggiore di fazione e ad ascoltare aneddoti sull’esercito. Afferma di conoscerla – vi aveva sede un reggimento di artiglieria – e mi cita il nome del colonnello comandante di allora.
Dal telefilm La casa nella prateria si direbbe provengano pure i piccoli bagni – subito a sinistra, dopo un cipressetto e un ulivo – da cui sta uscendo una coppia di giapponesi anziani. La struttura che ricopre i ruderi, invece, ha lo stesso aspetto rugginoso del prefabbricato della Fonte.
Il breve percorso di accesso è scandito, su ambo i lati, da snelli, ruvidi pilastrini di marmo grigio, disposti a un paio di metri l’uno dall’altro. Il primo tratto è in terra battuta, poi, attorno alla costruzione, si passa alla lastricatura un po’ sconnessa degli antichi camminamenti romani: o, perlomeno, a una loro buona imitazione.
Alcuni gradini conducono a una passerella di legno, che fa tutto il giro dell’area e dall’alto della quale, grazie al solido parapetto, le rovine possono essere osservate in sicurezza. Il pieghevole preso all’entrata illustra la struttura originaria delle terme, costruite all’inizio del II secolo su parte di un edificio anteriore. Informa che i primi scavi sono stati effettuati nel 1977 e gli ultimi nel 1999.
Molta parte dell’insediamento antico è ancora da disseppellire, come del resto si può desumere dai brandelli di muri, parzialmente coperti da teli di plastica nera, che scendono a emiciclo verso il drappello di brutti condominii grigi che dominiamo da qui. Certo, ci vorrebbero delle risorse. Mi prende il solito attacco di malinconia per il passato che lasciamo svanire nel nulla assieme alle innumeri vite della sua minuscola quotidianità, ma anche per questo povero popolo portoghese, che meriterebbe più mezzi degli scarsi di cui dispone.
Tra le rovine e la staccionata, sono posati sull’erba tronchi di colonne e di cippi in ruvido marmo grigio, con chiazze di licheni e una fitta iscrizione latina. Ne estraggo, di passaggio e a fatica, qualche parola sparsa: MAIESTATIS, BRACHAREA, IMPERAT, SORTEM, NOVIS, FIDELITAS, PERPETUO. Spero che qualcuno si sia preso la briga di trascrivere l’intero testo, in modo da preservarlo e garantirgli dei destinatari.
Facciamo, per tornare, il giro dell’isolato. Seguiamo la sterzante Rua Rocha Peixoto e le sue villette più o meno nuove ed eleganti, tipo Rione Orti di Alessandria. Svoltiamo in Rua de Santiago, accanto alla tozza chiesa di S. Sebastiano dei Querceti: santo a me ignoto. Il sagrato fronteggia – in corrispondenza del misterioso, consunto cippo in pietra edificato chissà quando e sovrastato dalla Croce di Lorena – un elegante palazzotto dallo stile coloniale e il suo arioso prato di accesso.
Ci riportiamo quindi in Largo Paulo Orósio, da dove, passando di fronte alla caserma dei pompieri e di fianco all’arcigna Torre do Postigo e ai suoi giardini cinti da un cieco muro merlato, imbocchiamo l’alberata Rua de S. Paulo, in testa alla quale è piantato l’edificio recente della Biblioteca Pubblica Lúcio Craveiro da Silva. Il resto della corta via – un paio di ristoranti, un parrucchiere, pochi negozi – è costituito da edifici di altezza ed epoca diverse, senza pena né gloria.
Sfociamo nella piazza di fianco al seminario. Una cappella bianca; la chiesa, in pietra, di S. Paolo; la torre gotica notata prima che, su questo lato, presenta l’aspetto strabiliante di un campanile barocco.
Varcato l’arco di separazione, rieccoci in Largo de Santiago. In fondo ci manteniamo sulla sinistra, entrando in un vicolo: Rua do Anjo. All’inizio, l’ufficio della compagnia assicurativa Fidelidade, dalla cui insegna a grandi lettere argentee sporge, di traverso, il muso stilizzato di un cane. Anche questa stradina di sampietrini grigi presenta case variabili, con le pareti più o meno scrostate o assalite, nelle sporgenze, dall’erba. Insegne: Paramenti; Restauro mobili; Ricami; Restaurante Latino. Promozioni di abiti in molteplici vetrine. Ecco che sfociamo a sinistra della facciata in pietra della Chiesa di Santa Croce, di fronte al locale dove abbiamo pranzato.
Per riportarci, pian piano, verso la stazione, imbocchiamo la via che punta all’abside della cattedrale, Rua de S. João. Sull’angolo con la piazzetta, il giardino della Casa do Passadiço – “del varco” – è interamente coperto da un enorme Ginkgo Biloba. Balconi a ringhiera con file di vasi fioriti. Un negozietto di alimentari. Il ristorante Caldo entornado, “brodo versato”. La Junta de freguesia – una specie di “consiglio di quartiere” – di S. João do Souto. Sul muro della cattedrale, nella medesima pietra, la statua della madonna col bimbo in braccio fra due scudi sovrastati da simboli nobiliari e recanti incise le quinconce della bandiera.
Svoltando a sinistra, si arriva nella piazza che esordisce, pochi metri prima della libreria Bracara, con una Croce di Lorena in legno, per poi insinuarsi tra il bianco Palazzo di Giustizia e il lato sudest della chiesa.
Svoltando invece a destra, si percorre l’angusta Rua Nossa Senhora do Leite, “Nostra Signora del Latte” (altra madonna sconosciuta), stretta fra uno dei muraglioni del tempio e un infelice prédio da cui non si scorge mai il sole. Subito a seguire, in aderenza, un altro edificio assai più fortunato: al pianterreno lo rallegrano le vetrine di una boutique; di fronte si affaccia su Largo do Paço, col sostegno successivo di alcuni palazzotti smaltati in piastrelle beige, verdi e lampone; sul fianco residuo gli danno conforto la piazzetta della chiesa della Misericordia e la sua torretta merlata.
Man mano che il treno si avvicina a Porto, la luce del tardo pomeriggio si fa più bianca, quasi festosa rispetto al grigio che ci ha oppressi durante tutta la giornata. Sedute accanto a noi, due ragazze post adolescenziali, con la presumibile età e l’aspetto da matricole universitarie. Una di esse, lunghi boccoli castano chiaro, sorrisi ripetuti, indossa una blusa di raso a fiori dalla scollatura ampia, che le scivola, abbastanza sensualmente, sull’omero sinistro. Scendono entrambe a Campanhã.
I nuovi treni locali portoghesi, come del resto quelli italiani, hanno il difetto di non avere servizi igienici a bordo. Dobbiamo quindi cercare i bagni della stazione. Li troviamo lungo la parete a destra della fila di binari. Per entrare, infiliamo una moneta nel tornello. Lo spazio è pulito, candido, luminoso. Sottofondo musicale piacevole. Appeso al muro, un riduttore di water da usare coi bambini piccoli.
Ci fermiamo a una delle biglietterie automatiche, a ricaricare le tessere coi biglietti per Aveiro. Mia figlia se la cava egregiamente, selezionando, nella schermata che ci compare, “cambio di destinazione” e inserendo la nuova meta. La distanza da percorrere è di un’ottantina di chilometri. L’andata e ritorno di entrambi ci costa, in totale, 14,80 euro.
Uscendo, avvertiamo la gradevole, rilassante sensazione di essere tornati a casa, tra vie e piazze che ci sono dolcemente consuete.
Non vogliamo allontanarci dalla pensione, per la cena. Sul primo angolo di Praça Poveiros, praticamente porta a porta col Minipreço in cui siamo stati ieri, brilla la grande insegna del Restaurante Cervejaria BAJU. A convincerci non è la conclamata offerta, quasi a tutta vetrina, di una francesinha e due bicchieri di birra per 10 euro, ma il menù esposto su un leggio, a ridosso dello stipite dell’ingresso, che propone piatti di affidabile tradizione popolare.
Muri rivestiti in finto marmo antracite; parquet a lucidi listelli chiari; lampadari cilindrici di stoffa rossa; sul tratto di parete di fronte al bancone, la foto gigante della città: un notturno a colori ripreso dal fiume. Ci accomodiamo al terzo tavolino di destra, coperto da una tovaglia di stoffa giallo senape. Dietro di me, tre signore chiacchierano in spagnolo; una è argentina. Le sedie in plastica rossa a schienale quadrato sono confortevoli.
Il cameriere arriva coi menù in inglese. Gli chiedo se posso averlo in lingua locale, perché mi trovo molto meglio. La cosa sembra fargli piacere, visto che esclama con forza, rivolto a un collega che gli passa di fianco e al quale ne sfila uno tra quelli che teneva in mano: Este senhor fala português!
Scegliamo entrambi la zuppa di verdure. Io sono poi attratto dalle ovas – ossia, le ovaie – di merluzzo, che mi ricordano quelle di pescada – nasello – mangiate a Lisbona, fritte o cotte a vapore. Ester ordina del salmone. Le ovas mi vengono servite nella versione impanata, con contorno di verdure e riso bianco: ottime.
Voglio gustarmi una birretta Super Bock. Dico al cameriere che venticinque anni fa, a Lisbona, avevano affisso manifesti pubblicitari con lo slogan: “Per essere un uomo super, beva Super Bock”. L’empregado replica che, se mi interessa, in occasione del novantesimo anniversario hanno prodotto e distribuito una partita speciale di bottigliette, con la foggia originaria. Accetto il suggerimento, memore delle serate trascorse alla Mascote da Atalaia in cui la birra era la mia consumazione abituale.
Mia figlia, come sobremesa, chiede una macedonia. Io mi faccio consigliare dal cameriere, che mi propone le deliziose Natas do Céu (“panna del Cielo”). Si preparano con uovo – il rosso amalgamato con sciroppo di zucchero, il bianco montato a neve – panna dolce e biscotti in briciole, disposti a strati in una ciotola di vetro con una grattugiata di scorza di limone e un pizzico di cannella.
Il conto è di 29 euro, pane e acqua inclusi: di nuovo assolutamente onesto, in rapporto a quel che abbiamo mangiato.
Venticinquesima parte – Continua.
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano
Didascalie:
- Le terme romane
- Un’antica iscrizione
- La chiesa di Santa Cruz (Santa Croce)