Decima puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
Il Centro di Architettura Mediterranea è aperto, e posso finalmente visitarlo: non appare dissimile dal bar della Neória, ma la volta di legno è squadrata, essendoci anche un piano superiore. Ospita la mostra Revenge of the herds – a reflection on heritage and mass tourism [Nota 1], fotografie di Giorgio Loddo, a cura di Paola Ruvioli. Entrambi i nomi mi suonano nuovi. Chiederò all’amico Vittore Fossati.
Come informa, in inglese, il solito, utilissimo pannello introduttivo, “Giorgio Loddo è un fotografo italiano insediato a Strasburgo, Francia. Ha svolto la propria attività in Francia, Germania e Italia“.
Così l’autore illustra i propri intendimenti (mi scuso fin d’ora con lui – gli capitassero sott’occhio queste righe – se la mia versione italiana della versione inglese della versione greca delle sue parole italiane dovesse distorcerne in qualche modo il senso):
A seguito della pandemia di Covid 19 e della revoca delle restrizioni ai viaggi, il mondo sta vivendo un’ondata di “viaggi di rivalsa”: il turismo di massa sta rinascendo più forte di prima. Il bisogno di esplorare e godersi ancora una volta il nostro pianeta è avvertito ovunque.
Questa “brama di rivalsa” porta un gran numero di turisti a riversarsi in città, montagne e isole. Ciò ci ricorda che alcune importanti questioni, in particolare il modo di conciliare il turismo di massa con il rispetto del patrimonio culturale e dell’ambiente naturale, non hanno mai trovato una soluzione definitiva.
Come preservare i tesori architettonici, artistici e ambientali del mondo per le generazioni future, consentendo al tempo stesso alla gente di fruirne ora? Come garantire che i benefici del turismo ne superino i rischi?
Non si tratta solo del futuro. I viaggiatori e i residenti delle destinazioni turistiche stanno già oggi affrontando gli effetti negativi dell'”iperturismo”.
Le immagini presentate in questo lavoro hanno lo scopo di destare emozioni, che vanno dalla nostalgia alla preoccupazione e al desiderio di una maniera più piacevole e sostenibile di viaggiare. Sebbene non risolvano la questione sopra menzionata, offrono un suggerimento: e se cambiassimo il modo in cui viaggiamo? E se evitassimo di visitare sempre gli stessi posti, tutti quanti nello stesso momento?
Alcune immagini raffigurano persone che “si arressano” in un posto, suscitando un senso di oppressione e disagio. Altre mostrano spazi tranquilli e confortevoli, spingendo lo spettatore a desiderare un momento in cui la bellezza del luogo potrà essere goduta senza l’afflusso della moltitudine. Tale momento non appartiene per forza al passato: spesso basta scegliere un periodo dell’anno più tranquillo. Le immagini di Balos, ad esempio, sono state catturate in una giornata soleggiata di febbraio.»
Concordo appieno. Esamino con cura le 23 istantanee, avvalendomi delle paginette a colori – reperite su un tavolo – che di ogni immagine precisano la località in cui è stata scattata. Si inizia col Museo di Arte Moderna di Bangkok (Thailandia), riprodotto anche sulla locandina. Vengono poi il Partenone e l’Acropoli, Faro (nell’Algarve portoghese), una serie di gremite immagini tra Cambogia e Thailandia. La pletora di pecoroni (herd…) che immortalano il tramonto col cellulare è la stessa ad Angkor (Cambogia), a Santorini (Grecia) e nel quartiere cinese di Bangkok. Si respira invece piacevolmente lo spazio a Flores (Indonesia), nella laguna di Balos (qui a Creta) e a Kaoshiung (Taiwan). Coppiette isolate ammirano la costa di Bali (Indonesia) e le lanterne riflesse nell’acqua di Hoi An (Vietnam). Posso dire che, almeno per quanto mi riguarda, Loddo è riuscito nel proprio intento pedagogico.
Perdura l’intenso via vai di gente tra piazzetta, Chálidon e Zampeliou.
Nella pensione, Sophia sta rifacendo le altre camere; mi invita a fotografare la vista – sulla baia e sul vicolo di arrivo – che si gode dai loro balconi. Noto con piacere, in cima al tetto, un pannello solare e un serbatoio, per fornire acqua calda “ecologica”.
La facciata della casa adiacente alla mia di due anni e mezzo fa, allora oggetto di ristrutturazione, presenta serramenti nuovi, intonaco albicocca chiaro, un lungo gradino di accesso piantonato da vasi di buganvillea.
Torno nella Cattedrale, pressoché deserta. A ridosso di uno dei pilastri, un’icona cui sono sospesi piccoli ex voto d’argento raffiguranti arti umani (per lo più gambe), forse in memoria di fratture risanate.
Nel negozio di abbigliamento all’inizio della Zampeliou, il gatto biancorosso è adagiato sopra il bancone, su un morbido cuscino. Più all’interno sta accucciata la nera. Mi volgo. Sull’altro lato della strada, una bottega a cielo aperto di artigianato.
Percorro l’intera via e svolto nella Theotokopulu, verso l’argentiere Almeida. Subito sulla sinistra, un passaggio arcuato, come quello che conduceva al cortile dei miei nonni di Piovera, collega con Odós Michail Veneri (altro kritikós zographos – pittore cretese): completamente riscialbata in differenti toni di giallo e cieca su entrambe le estremità, alla stregua di un ghetto.
Mi infilo nel dedalo versicolore, a volte in discesa e a volte in salita (con gradini lastricati bassi e profondi), compreso tra la Theotokopulu, la Zampeliou e il porto antico. Impossibile memorizzare un percorso, ma altrettanto impossibile perdere del tutto l’orientamento.
Raggiungo e seguo la Kallergon, alle spalle dell’Arsenale. In una casetta dall’intonaco rosa, con inserti di pietra affiorante, noto il circolo, di recente inaugurazione, Sfiga club. Penso sorridendo a quali possano esserne gli adepti. Qui incrocio una famigliola col passeggino; il papà mi dice: “Ah, Alessandria… Noi siamo di Ceva…“. Domando stupito: “Come fate a sapere che sono di Alessandria?“; e lui: “C’è scritto sull’impermeabile…“; al che replico: “È vero, non ci pensavo più; temevo mi si vedesse in faccia…“.
Continuo fino al Salty Drop e svolto verso la darsena. Oggi ho pranzato a sufficienza; posso dunque permettermi un ouzo al Kaffeníon ta dyo lux (dove non sono più stato…) senza subire le vacillanti conseguenze di qualche giorno fa. Seggiole impagliate stinte e tondi tavolini di ferro hanno l’aria di essere i medesimi del 2019, ma il cameriere è mutato: in luogo del Ghiannis di allora (che avevo descritto come “smilzo, in maglietta nera, somigliante – anche nei modi disinvolti e simpatici – un po’ al cantautore Gian Maria Testa, un po’ al comico Giovanni Storti e un po’ al conduttore-regista Pierfrancesco Diliberto ‘Pif’“) c’è adesso un tizio più giovane, corpulento e barbuto, pure lui in maglietta nera ma con bermuda grigie, che, quando non bada ai pochi clienti, se ne sta a smanettare sul telefonino.
Mi serve e riprende il suo core business (diciamo “attività principale”), che interrompe di nuovo quando mi porto all’interno e mi accosto al bancone per pagare il conto.
Nubi bluastre marezzate di luminosità opaca sovrastano la darsena, percorsa solo, in questo momento, da un pedalò e da uno dei battelli col fondo di vetro. Anche senza la sferza cocente del sole, i cavalli in attesa di passeggeri nitriscono infastiditi. Povere bestie.
Ancora, la piazza della fontana e le vie attigue mi fanno pensare a Eliot quando, nella Terra Desolata, richiama Dante: “A crowd flowed over London Bridge, so many, / I had not thought death had undone so many” [Nota 2]. Siamo già in piena atmosfera estiva.
Torno a percorrere gli spalti occidentali, che sovrastano, con alberi virenti protesi dalla ripa, il quartiere della Argo e della taverna dove ho cenato domenica. Una micetta tricolore sta accucciata nel gerbido dietro la panchina più prossima al bar. Alcune persone, sedute sulle rimanenti panche o affacciate al parapetto, contemplano il sole occiduo dardeggiare fosforeo sopra le case attraverso pochi, ridotti squarci nella nuvolaglia. Lussureggiano gli ailanti e le altre piante ruderali, ma le erbacce appaiono decespugliate.
Scendo in corrispondenza dell’arco con cui termina la Zampeliou. Ripasso davanti al negozio dei felini. Il biancorosso ha dato il cambio alla nera, che non si vede più, mentre sul banco di fondo rizza orecchie vigili la florida tricolore, riapparsa.
Mi salta fuori su Facebook, quasi a farlo apposta, un video in cui il poeta Milo De Angelis (che ha appena tradotto I fiori del male) recita le terzine del sonetto Les chats: “Assumono meditando le nobili pose / delle grandi sfingi adagiate in fondo alle solitudini / che sembrano addormentarsi in un sogno senza fine; // le loro reni feconde sono piene di magiche scintille / e delle pagliuzze d’oro, come una sabbia sottile, / costellano vagamente le loro mistiche pupille“.
Il suonatore di bouzouki si sta esibendo di fronte all’agenzia immobiliare, mentre l’uomo del coniglio, da solo, ha trovato posto sui gradini della porta accanto.
Per la mia cena di commiato, oltre alle frittelle e alla zuppa, riprendo la ghiemistá, accompagnata stavolta da patatine con tzatziki. Ghiorgos mi invita a tornare in settembre, secondo lui il momento migliore. Non so se riuscirò ancora ad affrontare un viaggio così impegnativo, visto che si fanno sempre più grevi in me la fatica e la tristezza, ma se accadrà sarà per presenziare a qualche solennità importante… Ad esempio, il Natale e l’Epifania… Vedremo.
Scopro ora, in una nicchia lungo la parete ovest della moschea, la presenza di un rubinetto funzionante. Registro l’informazione, non si sa mai.
Proprio all’ultima notte, sento in camera il ronzio acuto di una zanzara, che però non mi punge. Forse l’ha favorita l’umidità odierna.
Marco Grassano
Decima puntata. Segue
NOTE:
- [1] Mi faccio aiutare nel tradurre, a scanso di equivoci: “La rivalsa delle greggi – una riflessione sul patrimonio (mondiale) e sul turismo di massa“.
- [2] “Una folla fluiva sul London Bridge, tanti, / Ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avesse disfatti” (traduzione di Alessandro Serpieri).
DIDASCALIE:
- La sala espositiva con la mostra di Giorgio Loddo
- Dal balcone di Sophia
- Odòs Veneri, il “secondo ghetto”
- Il Kafenìon ta dyo lux
- Nubi sulla darsena
- Sugli spalti occidentali