Ha già presentato il suo libro un centinaio di volte, eppure l’entusiasmo non gli è ancora venuto meno, come ha dimostrato in una serata milanese a metà dello scorso novembre. Adriano Petta continua a infervorarsi ogni volta che racconta la storia della “sua” Ipazia ed è evidente che a commuoverlo è un sentimento ben più forte del comprensibile legame che si instaura tra l’autore e il protagonista di un suo romanzo.
Lo scrittore molisano è tornato a Milano per presentare Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, riedito per i tipi de La Lepre Edizioni, dopo esserci stato a luglio quando nei cinema era ancora in programmazione il film Agorà di Amenabar, incentrato sulla stessa vicenda storica.
Questa volta l’occasione è stata l’invito dell’Associazione Schiaparelli che ha organizzato un ciclo di incontri dal titolo Di libri e di stelle per ricordare il celebre astronomo a cento anni dalla morte e la Sala Maria Teresa della Biblioteca Braidense dove si è svolta la presentazione era lo scenario perfetto: i libri alle pareti richiamavano immediatamente i tesori custoditi nella Biblioteca di Alessandria d’Egitto, mentre i busti dei grandi spiriti greci dipinti in trompe-l’oeil sembravano messi lì apposta per presiedere all’incontro.
Petta ha esordito chiarendo di non esser mosso da alcun intento anticlericale, anche se il romanzo è una vibrante denuncia contro l’oscurantismo dell’antica chiesa alessandrina (e non solo). Si è mostrato invece molto polemico con alcuni “intellettuali di sinistra”, rei – secondo lui – di aver riscritto gli avvenimenti storici per adattarli alle proprie “esigenze” ideologiche.
Ha menzionato quasi di sfuggita il saggio di Silvia Ronchey (Ipazia. La vera storia, appena pubblicato da Rizzoli), senza peraltro nominarla e citandone il titolo giusto per rivelare di aver ricevuto numerose telefonate di amici che gli chiedevano spiegazioni: “Adrià, ma la tua allora non è la vera storia di Ipazia?!”.
La concitazione dell’autore era tale che il discorso in principio non fluiva scorrevole come sarebbe stato opportuno, anche per le numerose parentesi che apriva a sostegno della sua tesi e che finivano invece con renderne più confusa l’esposizione.
Dopo la prima lettura di un brano tratto dal romanzo (che, ricordiamo, è composto da due parti, scritte rispettivamente da Petta e dall’amico Antonino Colavito, scomparso nel 2007) il suo discorso si è fatto più piano, senza tuttavia rinunciare alle punte polemiche, come quelle contro il regista Amenabar.
A lui ha rinfacciato di aver rovinato la figura di Sinesio, da una parte commettendo l’errore di presentarlo in vita all’epoca della morte di Ipazia (mentre era morto due anni prima), dall’altra trasformandolo in “cattivo” e dunque duplicando il ruolo spettante “di diritto” a Cirillo, nemico giurato della scienziata.
Sarebbe stato più veritiero e anche più interessante dal punto di vista drammatico presentare Sinesio per quello che era, ovvero un vescovo che dubitava. Nell’accorata filippica in difesa della memoria della sua eroina Adriano ha ricordato che per dodici secoli le donne sono state tagliate fuori dalla scienza e altrettanti secoli di progresso sono stati cancellati: l’orologio della civiltà è rimasto fermo per un intervallo lunghissimo, con conseguenze devastanti.
“La storia del mondo nuovo, orribile, comincia la notte di Natale del 390 proprio a Milano” – ha rievocato – quando fu eletto vescovo il battagliero Ambrogio. Tutto è partito da qui, dunque. Quattro uomini disposti a tutto strinsero tra loro un patto per prendere le redini dell’Impero Romano e ci riuscirono: erano appunto Ambrogio, Agostino, Cirillo e Giovanni Crisostomo.
Il primo impose all’imperatore Teodosio di riconoscere la sua superiore autorità, in cambio del perdono e della riammissione nella comunità dei fedeli. Da quella notte milanese al di sopra dell’Impero Romano si era posto il Cristianesimo. Allora Ipazia aveva vent’anni e studiava alla biblioteca di Alessandria.
Proprio al dialogo tra Ambrogio e Ipazia è stata dedicata un’altra lettura. Riprendendo il filo del racconto, Petta ha illustrato i fondamenti della scuola alessandrina, una vera e propria università, avendo tutte le caratteristiche dei moderni atenei.
“È proprio appassionato”, ho sentito dire a un signore seduto nella fila dietro la mia, e poco dopo, con un colpo di teatro lo scrittore ha estratto dalla tasca l’astuccio di quello che a prima vista sembrava un pettine. Mostrandolo al pubblico ha spiegato invece che si trattava di un regolo calcolatore, lo stesso strumento che gli antichi chiamavano mesolabio e che serviva per effettuare i calcoli indispensabili a tutti i lavori.
Fu inventato da Eratostene ad Alessandria ed era posto in cima a una colonna del tempio di Serapide, a chiara testimonianza della possibile (anzi necessaria) coesistenza pacifica tra ragione e religione, tra scienza e fede.
Da parte sua ha tenuto a marcare la differenza tra Cristianesimo e chiesa cattolica, riconoscendo solo a quest’ultima la colpa di aver osteggiato il progresso della scienza.
Al termine della presentazione attorno all’autore si è riunito un piccolo gruppo di amici e conoscenti, tra cui chi scrive. Tutti insieme abbiamo visitato il Museo Astronomico di Brera, luogo di conoscenza e ricerca che avrebbe sicuramente solleticato l’inesauribile curiosità di Ipazia.
All’uscita dal complesso museale, nel cielo sopra di noi brillava la costellazione di Cassiopea e accanto alla Luna risplendeva Giove. Fatti pochi passi, siamo entrati al ristorante Torre di Pisa. Al momento dell’ordinazione ci siamo accorti che la comune simpatia per la scienziata alessandrina non si traduceva in un’affinità di gusti in fatto di gastronomia, tanto che il cameriere ha dovuto prender nota di sette scelte diverse per altrettanti convitati riuniti attorno alla tavola.
Adriano ha ordinato degli spaghetti al pomodoro, mentre io ho optato per il filetto Robespierre (che ho chiesto leggermente al sangue), accompagnato da fagioli cannellini.
Abbiamo brindato a Ipazia con un Chianti della casa che a me non è parso all’altezza della circostanza e il polletto scelto dal comico Andrea Bove si è rivelato un mezzo polletto: roba da costruirci sopra una serie di gag.
Tra un boccone e l’altro Adriano ci svelava che Santa Caterina è in realtà una santa inesistente, dietro la quale si nasconderebbe il tentativo (riuscito, dovremmo riconoscere) del patriarca Cirillo di sfruttare l’emozione suscitata dopo l’assassinio di Ipazia.
Del rapporto tra scienziati e clero parlerà anche il prossimo romanzo, dedicato all’invenzione della stampa: la sua uscita è prevista per la fine di febbraio. Ce ne ha anticipato qualche particolare chiacchierando davanti al suo hotel, prima della buonanotte. Mentre scendevo in metropolitana, ripensavo alla “molto allusiva equivalenza dei tempi…”, per usare le parole con cui Mario Luzi dava avvio alla sua storia di Ipazia.
Saul Stucchi
Trattoria Toscana “Torre di Pisa”
Via Fiori Chiari 21/5
Milano
Tel. 02.874877
Adriano Petta e Antonino Colavito
Ipazia
Vita e sogni di una scienziata del IV secolo
pp. 342; 22 €
La Lepre Edizioni
www.lalepreedizioni.com