Ai primi del 1912, nel tentativo di cercare un clima più adatto al cagionevole stato di salute, Guido Gozzano parte alla volta dell’India e stende una serie di annotazioni raccolte nel volume Verso la cuna del mondo. Pubblicato nel 1917, pochi mesi dopo la scomparsa dell’autore, esso descrive le tappe nel nord del Paese e poi a Bombay, Goa e Ceylon.
Narra delle zone effettivamente viste, ma cede volentieri alla tentazione di mescolare il reale con l’immaginario. E così le pagine del testo dipingono anche contrade solo vagheggiate partendo dalle testimonianze di altri cronisti.
Comunque, in data 3 febbraio, recita tra l’altro: “Dopo tante città abbacinanti di candore, ecco una tutta rosea: Jaipur. L’occhio stanco di troppa luce riverberata da pareti bianche si riposa sui palazzi come sulla dolcezza di certe stoffe attenuate dal tempo. E la nostra fantasia trova finalmente il luogo della favola, sognato nell’infanzia prima”. Subito dopo aggiunge che il sovrano d’allora doveva avere l’anima di un fanciullo e di un poeta per erigere un’urbe molto simile a quelle percepite nei sogni dell’oppio, nelle fiabe persiane o nelle leggende vediche.
Al di là delle possibili trasformazioni del sito in “topos” letterario, il sapore d’incanto esiste davvero e si avverte senza bisogno di suggerimenti più o meno pilotati. La storia dice che Jaipur nasce nella prima metà del Settecento per volere del maharaja Sawai Jai Singh II, che affida i lavori d’ideazione al progettista Vidhiadar Bhattacharya.
Questi opera seguendo i dettami dell’antico trattato d’architettura Shilp Shastra. Sorge così una capitale con sette vie d’accesso, impostata a scacchiera e ricca di larghe arterie, secondo un preciso piano regolatore. La geografia aggiunge che si trova a 420 metri sul livello del mare ed è circondata su tre lati dalle propaggini settentrionali dei monti Aravalli.
Al centro della struttura si leva il City Palace, costituito da un vasto complesso di edifici, cortili e giardini. Entrando da Vicenda Pol s’incontra il Mubarak Mahal, sorto per accogliere gli ospiti.
Unisce stili islamici e rajput contaminati con alcune tracce europee. Oggi ha la veste d’un museo che annovera una serie di costumi aristocratici e di splendidi scialli del Kashmir.
C’è poi il Maharani, in cui si ammirano spade cerimoniali splendidamente tempestate di pietre preziose. Non mancano gli strumenti bellici, come ad esempio i pugnali a doppia lama, che allo scattare d’una leva si biforcano nel corpo delle malcapitate vittime.
Segue il Diwan-i-Am, ossia la sala delle udienze pubbliche, tramutata in collezione di manoscritti che ritraggono storie mitologiche ma anche scorci di vita quotidiana.
Tra gli oggetti più curiosi figurano le copie in miniatura delle scritture sacre hindu, realizzate in formato minuscolo per essere facilmente nascoste o distrutte in caso di emergenza. Sul lato nord si erge la Sarhad Ki Deohri, vale a dire la Porta di frontiera, riccamente decorata con le statue di due elefanti collocate nel 1931 per celebrare la nascita d’un rampollo di sangue blu.
Poco dopo s’incontra il Diwan-i-Kas, con i tipici lineamenti moghul. In origine destinato ai ricevimenti privati, è oggi sede espositiva delle cosiddette “Gangajali”, cioè due eccezionali giare d’argento ricordate anche nel Guinness dei primati. Come dice il nome, i mastodontici vasi conservano le acque sacre del fiume Gange.
Pesano 345 chilogrammi e possono contenere 900 litri di liquido. Si racconta siano servite al maharaja Madho Singh II come scorta personale durante il viaggio in Inghilterra per assistere nel 1901 all’incoronazione di Edoardo VII. Infine si hanno gli archi del Pitam Niwas Chowk, che rappresentano la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno.
Accanto alla cinta muraria che delimita la principesca cittadella si trova il Jantar Mantar. Così è infatti battezzato l’osservatorio astronomico voluto dal padre di Jaipur. Il quale, oltre che una testa coronata, è anche un matematico e un appassionatissimo studioso delle stelle, tanto da meritare il titolo di Newton d’oriente.
Nel corso delle sue ricerche scopre che gli strumenti di calcolo in uso portano a sviste e inesattezze, spesso dovute alle minuscole dimensioni o al materiale troppo elastico con cui sono costruiti. Per questo decide di mettere a punto delle apparecchiature molto più voluminose, in grado di eliminare o almeno ridurre il più possibile ogni imprecisione. L’insieme contiene 13 dispositivi realizzati in pietra e marmo. Il più straordinario è il Samrat Yantra, che corrisponde sostanzialmente a una meridiana equinoziale.
Consiste in un enorme triangolo in muratura con una base di 34,6 metri e una larghezza di 3,2. L’ipotenusa è parallela all’asse terrestre e orientata verso il polo nord. Da entrambi i lati c’è un quadrante graduato che determina le ore e i minuti. Si ha poi il Laghu Samrat Yantra, che misura l’ora locale con un margine d’errore di 20 secondi. Il Mishra Yantra, da parte sua, sa indicare quando scocca il mezzogiorno nelle varie regioni del mondo. C’è inoltre il Rashi Yantras, con 12 elementi che rappresentano i segni zodiacali e viene impiegato dagli astrologi per rendere più puntuali gli oroscopi.
L’ultimo installato in ordine cronologico è invece lo Jayaprakash Yantra, che proietta l’ombra su quadranti curvi inseriti in due vasche circolari.
Realizzati in pochi anni a partire dal 1728, inizialmente questi ciclopici congegni portano alla compilazione di accurati almanacchi e di rigorose tavole siderali. Divengono d’improvviso obsoleti con l’invenzione del telescopio ed è comprensibile che lo scrittore crepuscolare torinese definisca questa singolarissima specola il luogo “più malinconico di tutti”.
Egli delinea con pignoleria lo stato d’abbandono in cui versa, invaso com’è di scoiattoli e scimmie, per cui nel sito “si alternano un’infinità di musetti pensosi e di code pendule”. Fortunatamente negli ultimi decenni viene riscoperta la sua importanza storica e, per certi aspetti, anche estetica.
Di solito la scienza impone forme e soluzioni che prescindono dall’arte. Nel caso specifico le simmetrie dovrebbero piegarsi ai capricci della latitudine e disporsi su angolazioni strane. E tuttavia le creature di Jai Singh sembrano quasi pensate per il pennello d’un De Chirico: solidi geometrici inusuali, superfici bianche alternate a bande nere, costruzioni che potrebbero quasi ricordare le dimore terrene ma che in realtà sono case del firmamento, linee sghembe che si sottraggono alla prospettiva o la rovesciano, passaggi sospesi che solo utilizzatori a prova di vertigine possono affrontare e infine un’improbabile scala che si perde nel cielo.
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Testo e foto di Lorenzo Iseppi
Didascalie:
- Jaipur vista dalle alture dei monti Aravalli
- Il Mubarak Mahal all’ingresso del City Palace
- Una delle statue d’elefante a lato della Sarhad Ki Deohri, la Porta della frontiera
- Il Diwan-i-Kass con un esemplare delle gigantesche giare d’argento
- L’osservatorio astronomico Jantar Mantar
- Il Rashi Yantras per le ricerche astrologiche