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Voi siete qui: Europa » Viaggio a Porto: il Centro Portoghese di Fotografia

17 Febbraio 2018

Viaggio a Porto: il Centro Portoghese di Fotografia

In questa tappa del suo reportage su Porto Marco Grassano ci racconta del Centro Portoghese di Fotografia.

Prendiamo la colazione nella confeitaria sotto casa, oggi di nuovo aperta. Una turista romana giovane, mora e coi capelli corti, seduta a un tavolino in fondo al locale, si alza, si avvicina al bancone e si rivolge alla simpatica titolare, chiedendole informazioni sui panetti di broa esposti in vetrina. La signora risponde che sono fatti con farinha de milho.

“Miglio?” domanda ancora la ragazza, perplessa. Le spiego che si tratta del mais, e che nell’impasto viene miscelato alla segale. “Benissimo, perché sto proprio facendo una dieta con pane di segale… Grazie!” mi dice con un sorriso.

Il lucernario del Centro Portoghese di FotografiaIl cielo è variabile, parzialmente coperto, ma non fa freddo. Il Jardim de S. Lázaro, intravisto da fuori ieri notte, è l’area verde pubblica più antica della città. Ombreggiato da alti tigli e da magnolie, sagomato in aiuole e vialetti di gusto romantico che conducono allo stagno centrale, ci si presenta occupato da panche, tavolacci e chioschi – al momento vuoti – per qualche manifestazione gastronomica.

Una fonte di pietra, scolpita a decorazioni vegetali, emerge dalla bassa inferriata di cinta lungo il tratto di via da cui arriviamo. Sul lato opposto, il bianco “Collegio Nostra Signora della Speranza / Santa Casa della Misericordia di Porto / Alunne Interne, Semi-interne ed Esterne”, con un luminoso portale barocco che dà accesso alla chiesa, attribuita al prolifico Niccolò Nasoni. Qui le monache non lasciano di certo entrare un maschio…

Ci dirigiamo alla Biblioteca Civica, ospitata nel sobrio ex convento seicentesco – anch’esso imbiancato a calce – che fronteggia, verso est, i giardini. Varcato il portone di legno, spinte le elastiche ante di vetro e superato l’androne ombroso, ci troviamo di fronte il chiostro. In mezzo, una fontana grigia con piccoli mascheroni zoomorfi che sputano acqua. Gli archi sono anch’essi muniti di vetrate, da chiudere quando la meteorologia si fa ostile.

Lungo i portici, pavimentati a grandi lastre di pietra, verdi panche di legno dallo schienale nobiliare e, alle pareti, azulejos con decorazioni geometriche o floreali, o con figurazioni inaspettatamente profane: una donna a (piccoli) seni nudi che sostiene, senza sforzo apparente, una traboccante cornucopia; un’elegante dama a braccia scoperte che solleva un fiore all’altezza dell’elaborata acconciatura…

Azulejos geometrici anche ai muri dello scalone che conduce al piano superiore, alla sala di consultazione e lettura: bella, moderna, con pavimento e banchi di legno marroncino-dorato e lunghe scaffalature, facilmente accessibili, su due piani. Dietro la scrivania subito a destra dell’ingresso, con tanto di computer, un addetto. Già alcune persone impegnate nello studio. Salgo una rampetta, fino alle scansie della letteratura straniera. Trovo un po’ di russi: Cechov, Gogol’, Pasternak, Tolstoj, Nabokov. Estraggo e sfoglio l’antologia personale del grande brasiliano Carlos Drummond de Andrade:

E adesso, Giuseppe?
La festa è finita,
la luce si è spenta,
la gente è sparita,
la notte è infreddata,
e adesso, Giuseppe?
Che ne è, ora, di te?.

Tornati di sotto visitiamo, nella duplice sala espositiva in fondo al chiostro, la mostra “Raul Brandão, Biografia e Opera Letteraria”. In vetrinette appese, le edizioni originali delle opere, corredate di ampi cenni bio-bibliografici. Distesi in una lunga teca orizzontale, manoscritti di libri e di lettere, giornali d’epoca contenenti suoi articoli, fotografie. Su pannelli plastificati, due belle citazioni, che trascrivo.

“Giunge fino alla nave il fischio di un treno. E a poco a poco la città si avvicina con un’aureola di cenere e argento e il fiume impolverato di viola. Da un lato, in due tratti, l’arco del ponte D. Maria e dall’altro lato, in una sola tinta, la folta altura di Gaia. Poi un altro ponte. Nell’acqua uno sfavillio a sprizzi in cui brucia fuoco dorato. Infine la Ripa vecchia e smangiata, piena di persone, di una folla femminile, di grida… Scalette, un mercato di frutta. Sbarchiamo a Porto.” (da Guia de Portugal).

“Il mare culla il Cabedelo. Una luce come nessun’altra e che tremola con il movimento e il riflesso delle acque, un’aria come nessun’altra e che ancora oggi respiro come la vita stessa. Silenzio… Figueira da Foz si va dorando lentamente, anno dopo anno, tostata dall’aria oceanica, strato di sole, strato di salnitro…” (da Os pescadores).

Di nuovo sotto i portici del chiostro, osserviamo altri pannelli che illustrano il centenario di Húmus, i novant’anni di As ilhas desconhecidas – “Le isole sconosciute” – e il rapporto tra l’autore e la sua città natale.

Per raggiungere il Centro di Fotografia passiamo stavolta a sinistra dei Clérigos, nella lastricata Rua da Assunção, stretta e in blanda salita, percorsa dai binari del tram che la invadono quasi tutta. Al piano terra di slavati edifici tinta marciapiede, negozi di calzature, di abbigliamento, di arte sacra, inframmezzati a offerte alimentari varie.

La Fonte do Olival a PortoDopo il campanile lo spazio si apre, la pendenza cessa e le case assumono colori briosi, dal giallo sole al rosso lampone al turchese, ma le vetrine mantengono l’eclettismo degli accostamenti: Servizi Turistici; Arte e Cornici; Stuzzichini; Yellow Bus; Gastronomia; Casa Orientale – Caffè, Tè e Cioccolato; Casa della Gomma; Bar; Farmacia; Gelati… La già vista “Fonte da Porta do Olival – Restaurada em 1940”, alimentata da due pesci di pietra che paiono pescati in qualche bestiario medievale – occhi accigliati, dentatura da onnivoro, naso – e le cui code reggono il medaglione di un bagnante drappeggiantesi addosso un panno vaporoso.

Il centro sta aprendo ora: un custode in divisa – pantaloni blu, camiciotto azzurro con le spalline, cravatta – spalanca i battenti marroni e rientra. Anche qui bisogna varcare una porta di vetro a molla. L’uomo si è posto accanto al tavolo dell’usciera, vestita allo stesso modo. Gli chiediamo dove si prende il biglietto; ci risponde che l’entrata è gratuita.

Il Centro Português de Fotografia a PortoSaliamo una rampa di scale e ci ritroviamo in una specie di vasto pozzo quadrangolare, che sale fino alla vetrata aperta nel tetto e sul quale si affacciano un balcone a veranda, di legno smaltato in bianco, e decine di porte e finestre chiuse da grate fitte e massicce. Si tratta infatti di un austero ex carcere, costruito nel Settecento e adibito, dal 1997, a questa nuova funzione culturale senza che ne venisse alterata la struttura. In uno spazio adiacente, tutto legni chiari e presidiato da un’altra addetta, la biblioteca: negli scaffali e sui tavoli, pubblicazioni plurilingui sulla fotografia (cataloghi, sillogi d’autore, monografie, raccolte di riviste in faldoni).

Iniziamo la visita imboccando uno dei pochi varchi non sbarrati. Un corridoio in parquet, che si apre anche in finestre verso l’esterno, dà accesso a diversi locali, ognuno allestito con serie di immagini di tematica diversa. In un’ala con pareti dalle sbrecciature che riportano alla luce strati diversi di tinteggiatura (rosso, ocra, azzurro), Murmúrios do Tempo – Gente com nome, dedicata ai detenuti dell’antica cadeia, o prigione: le prime foto segnaletiche, le schede personali.

Mi rimane impressa quella di una ragazzina, “Zulmira Ribeiro o Zulmira Gonçalves, 13 anni, nata il 20 di novembre del 1890”. La storia della detenzione, per adulterio, di Camilo Castelo Branco e della sua compagna Ana Augusta Vieira Plácido, anche lei scrittrice, poi diventata sua moglie appena la vedovanza di entrambi ha consentito il matrimonio.

O tesouro da Abissínia, “diario fotografico” del viaggio in Etiopia di Pedro Mesquita: eloquenti immagini in bianco e nero con una presentazione di Paula Mourão Gonçalves. Humano, demasiado humano, inspiegabile richiamo a Nietzsche per una “selezione di immagini della Collezione Nazionale di Fotografia curata da Maria do Carmo Serén” in cui compaiono persone disparate riprese, con tecniche diverse, in atteggiamenti di apparente quotidianità; fra esse, l’unico viso a me noto è quello dell’allenatore José Mourinho.

Saliamo una scala di pietra più ampia e articolata, la cui tromba giunge anch’essa fino a un lucernario. Sfociamo in un grande vestibolo, vuoto tranne che per la foto molto ingrandita di una ragazzina fin de siècle ripresa mentre, seduta mollemente sul piano di quella che potrebbe essere la sua scrivania di studio, accenna a un brindisi sollevando un piccolo calice di porto Sandeman (la marca la si desume dalla vicina bottiglia). Una legenda informa trattarsi di una cartolina di auguri inviata agli amici per l’anno nuovo (1908) dal fotografo Aurélio de Paz dos Reis, che vi ha ritratto la figlia Hilda. I libri che si vedono negli scaffali non rappresentano le letture scolastiche della giovinetta, come potevo inizialmente pensare, ma gli interessi culturalmente eclettici del padre.

Di fronte alla foto, in un salone in forte penombra, sono esposte le installazioni del “Progetto MEF – Movimento di Espressione Fotografica / Integrare attraverso l’Arte – Questo Spazio che Abito”: parallelepipedi illuminati dall’interno che presentano, sulle facce maggiori, enormi diapositive innaturalmente alonate e con ancora la dentellatura dei negativi.

Le tematiche sono quanto mai eterogenee: una mano che regge nel palmo un rosario, un’altra mano con una foto tessera, un tratto di costa su cui si affaccia un villaggio di pescatori, un rabelo carico di botti, la funicolare della Bica di Lisbona, scorci urbani che non conosco… La locandina spiega che “Il progetto si propone di lavorare con i giovani questioni come la motivazione, lo sviluppo delle capacità di osservazione e riflessione delle espressioni artistiche, ma anche lo sviluppo e scoperta personale, la promozione dell’autostima e fiducia, così come la capacità di condivisione e cooperazione”.

Nel vestibolo, un’altra porta conduce all’ala delle collezioni di strumenti: dalle prime, enormi fotocamere per i ritratti di studio fino agli ultimi, sofisticati apparecchi a pellicola che hanno preceduto la tecnologia digitale. Seguiamo l’evolversi, l’affinarsi, il progressivo alleggerirsi delle macchine, finché cominciano ad accompagnare comunemente il turismo e persino lo spionaggio: camuffate da lattine di Coca cola, di Pepsi o di altre bevande, da bottoncini di cioccolato Smarties, da pacchetti di sigarette Marlboro o Camel, da accendini, da orologi, da stilografiche.

E le piccole Kodak che usavamo da ragazzini, e le Polaroid, e le cabine di strada per le foto tessera, e le varie apparecchiature per lo scatto e la visione di immagini complesse, gli stereoscopi – anch’essi un ricordo d’infanzia – e l’attrezzatura di laboratorio per lo sviluppo e la stampa, e macchine subacquee e lenti e obiettivi e filtri, e così via. Mi verrebbe voglia, se tornerò in questa città, di portare con me e donare alla collezione i vecchi dispositivi che ho conservato, come gesto di affetto per il Centro e per garantire ai miei oggetti una visibilità, una permanenza…

Le finestre sono sprangate anche quassù da sbarre fitte e massicce. Vi si domina il paesaggio dei tetti del quartiere ebraico, fino alla Cattedrale e, in basso, al fiume. Il bagno, in un recesso ricavato contro la parete di pietra, non è angusto, ed è bene illuminato.

Al pianterreno, prima di uscire, saliamo ancora i tre gradini che portano a un salone lastricato, in cui sono presentate le opere del Projeto 17, ossia le foto realizzate come prova d’esame dagli studenti – internazionali – del relativo corso: “Se le fotografie possono testimoniare gli eccessi dell’esistenza umana, è pure vero che partecipano di essi, come rivela la crescente euforia tecnologica con gli smartphones; per quanto non sembri evidente, la democratizzazione dell’accesso alla fotografia non l’ha resa più facile: al contrario, si fa urgente non solo imparare a fare, ma anche a pensare le immagini”.

Facciamo il giro: scene popolari di una periferia di case basse con persone sedute a chiacchierare; immagini alla Hopper di interni notturni ripresi da una porta o da una finestra; donne giovani e avvenenti in pose più o meno sensuali; composizioni fortuite o studiate di oggetti – il tutto mirato a confermare il programma del corso, ossia “Affrontare l’ibridazione delle apparecchiature fotografiche e la loro facilità di impiego come una semplificazione che le avvicina alla matita e ad altri attrezzi essenziali dell’espressione intellettuale e artistica”.

Mia figlia, fotografa giovane e istintiva, storce il naso per queste circonlocuzioni, ma soprattutto di fronte ad alcuni dei risultati esposti. A me la mostra fornisce qualche emozione non disprezzabile, anche se il mio gusto si è formato sul lavoro di Luigi Ghirri e dell’amico Vittore Fossati.
Diciottesima parte – Segue.
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano

Didascalie:

    • Due immagini del Centro Portoghese di Fotografia
    • La Fonte do Olival
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