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Voi siete qui: Europa » Viaggio in Camargue. Quarta tappa: tra nuvole ed armi d’assedio

1 Ottobre 2012

Viaggio in Camargue. Quarta tappa: tra nuvole ed armi d’assedio

Quarta e ultima puntata del reportage di Marco Grassano sulla Camargue.

Il cielo del mattino è molto azzurro, con qualche lieve cirro. Una blanda aria di Mistral. All’ora di pranzo, dopo una drastica rasata dal parrucchiere unisex della via pedonale, mi concedo una lunga passeggiata tra gli specchi d’acqua che iniziano dietro l’albergo: alcune “cabanes” e altre case, sempre bianche, di residenti estivi, tutte dotate di allacciamenti per il gas e di cassette per le lettere, e con gli spazi verdi, più o meno grandi, assai ben tenuti; stradine polverose (in uno spazio più ampio, arriva e si ferma un corteo di auto d’epoca), chiazzate dal salino e bordate di alte canne oltre le quali si vedono da vicino gruppi di fenicotteri rosa placidamente beccanti nella mota. Aggiro il borgo passo a passo costeggiando sul lato destro un canale che sembra circondarlo; sull’altra riva automobili parcheggiate scintillano al sole. Un ponticello mi permette di valicare il fossato prima che esso finisca nel grande stagno a ovest del paese; sfioro un quartiere interamente costituito di “cabanes” estive, che mi ricorda la zona delle baracche sul Po di Bassignana. Vedo un curioso abbinamento, all’interno della medesima recinzione, tra una “cabane”, un cavallo che pascola e un carrozzone gitano, arrivo al monumento che compare sulle cartoline locali (un pilastro senza nessuna scritta, sormontato da una croce camarghese in ferro battuto) e subito dopo sfocio sulla strada che, partendo dall’area del porticciolo e costeggiando in sponda sinistra il Piccolo Rodano, consente di arrivare ad Aigues Mortes, unendosi, poco prima del ponte di ferro sul fiume, alla provinciale che abbiamo fatto noi.

Nel pomeriggio (e poi anche alla sera) cirri più numerosi e brezza più sostenuta, soprattutto lungo la costa. Qui cammino prolungatamente fra sole e aria. Percorro il lungomare delle Saintes Maries fino al parcheggio riservato ai camper, dove la passeggiata finisce. Proseguo lungo una sterrata polverulenta, raggiungendo le prime dune della spiaggia (un posto di Primo Soccorso identico a quello centrale e all’altro dopo il porto, verso il Piccolo Rodano; un grosso chiosco per rinfreschi…) e poi, tra la stradina e l’argine (“digue”) litorale, un secondo, lunghissimo spazio per camper, non cementificato. Oltrepasso una grande idrovora (che al ritorno troverò in funzione) e il monumento a Gilbert Le Roy, deportato a Buchenwald (data la destinazione, doveva trattarsi di un partigiano). Vedo comitive a cavallo aggirarsi sui sentieri tra salicornie e stagni, procedendo in lenta fila come in un film western.
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Massi sulla strada impediscono l’accesso ai veicoli a quattro ruote: si vedono solo turisti passare in bicicletta, senz’altro il modo per spostarsi più idoneo su percorsi così piatti. Rasento la Réserve Départementale des Impériaux e la Réserve Nationale Etang de Vaccarès, con trampolieri dal passo pigro che pescano, ogni tanto, qualche leccornia dal fondo melmoso. A destra, oltre stagni più piccoli e la linea delle dune, le onde riversano i loro orli spumeggianti sull’ampia spiaggia liscia, dove una coppia di aquiloni (blu e rosa; bianco, verde e azzurro) dondola nell’aria. Mi tornano alla memoria alcuni versi di Conrad Aiken tradotti da Salvatore Quasimodo, presi dal poemetto “Changing mind” (“Mutevoli pensieri”, nella versione del poeta italiano):

“Paludi d’acqua salsa vaporanti nella luce
del sole, dove gli aironi si levano in volo
con le zampe distese all’indietro
e il cavallo selvaggio stampa la sua impronta!
Là, in lungo luccichio, s’infrange il mare,
lungo come il mondo!
…
egli vide gli aquiloni levarsi insieme
a forma di rombo sulla terra piatta…”

In più punti la sterrata arriva a lambire le dune, su cui crescono ciuffi scarmigliati di Ammophila arenaria, camomilla di mare (Anthemis maritima), cardo di mare (Eryngium maritimum), garofano di mare (Malcolmia littorea), elicriso, Matthiola sinuata, Lagurus ovatus (“coda di coniglio”). Nel mio manualetto sulla flora della Camargue leggo: “Figlie della sabbia e del vento, le dune sono alla mercé dei venti contrari”, e ancora: “Non è la duna che permette l’insediamento (installation) delle piante, ma sono le piante che fabbricano la duna”. Annoto la presenza dell’euforbia marina (Euphorbia paralias), della Crucianella maritima, del lino di mare (Linum maritimum) che produce belle corolle giallo sole, dei fiori – pure di un giallo intenso – dell’ispida ma attraente Medicago marina, della Centaurea aspera dai petali fucsia, e dell’onagro (Oenothera erythrosepala), anch’esso dai fiori gialli. Ad agosto si schiuderanno i delicati petali bianchi del giglio di mare (Pancratium maritimum). Guardando ad ovest, vedo emergere in lontananza, dalla bassa linea del paesaggio, la chiesa e la torre del Museo Baroncelli.
Camargue_14
Dopo cena, ancora per le “fêtes votives”, lungo la parte est della sopraelevata Promenade Charles de Gaulle, una fitta ed eterogenea compagine di turisti, o presunti tali, assiste – guidata da uno speaker dal marcato accento meridionale (l’uomo, secondo il buon costume del Midi, definisce ironicamente “belges”, belgi, anche gli abitanti della regione di Parigi…) – alla liberazione di alcuni torelli nel tratto di strada sottostante, rigorosamente sbarrato al pubblico (ben diverso, qui, che a Pamplona: ma i tori continuano a interessarmi poco).

Il cielo mattutino è chiazzato, a ovest, da qualche cirro. Aria appena percettibile. Poi, malgrado l’assenza di vento (almeno, al suolo), i cirri si estendono, lievi, a tutto il cielo, come già durante la mia passeggiata fra gli stagni e le dune. Andando verso l’interno, ritroviamo le cicale che stridono sonore ovunque ci siano fronde, foss’anche un singolo cespuglio. Evitando Arles, e sfiorando il residuo di acquedotto romano che vi arrivava, saliamo al bastione dei Baux de Provence. Lasciamo la macchina nel parcheggio alle porte del borgo. Rimontiamo il lieve pendio dello spiazzo con la panetteria e con – di fianco – lo sportello automatico per il pagamento della sosta, sotto il quale passeggia un gatto tigrato a pelo lungo. Entriamo in paese. Un cartello annuncia una serie di mostre sulla presenza, qui, del principe Ranieri e della principessa Grace. A destra, i tavolini dell’Hostellerie de la Reine Jeanne.

Passando in viuzze ravvivate da una piacevole brezza, sulle quali si aprono negozi turistici e che a volte scendono verso rovinosi archi di portone, arriviamo alla chiesa di San Vincenzo; il portale, in cima a un’ampia scalea, appare un po’ troppo grande rispetto alla facciata. Dentro, un sottofondo di canti gregoriani. Navata spoglia (tranne che per un gremito quadro sopra l’altare), illuminata dai colori crudi di alcune vetrate moderne; pannelli con foto “ufficiali” degli anni sessanta o forse settanta (la moda degli abiti maschili da cerimonia è dura a mutare). Di fronte alla chiesa, ad angolo retto con essa, sorge, affiancata da un monumento con una elaborata croce in ferro battuto e da alcuni cipressi, la Cappella dei Penitenti Bianchi, affrescata qualche decennio fa in modo tollerabile (un Cristo, seduto su una rupe stilizzata e stagliato contro una campitura azzurra, alza l’indice destro a beneficio di pastori pure stilizzati…).

Passiamo la biglietteria, ove sono esposti reperti e due plastici in cui è ricostruita l’antica conformazione della fortezza. Non ritrovo, nel piccolo cimitero, la tomba appartata che vagamente ricordavo; per alcuni dei sepolcri più grandi, un cartello offre il rinnovo della concessione. Un’audioguida, in italiano, ci illustra le varie parti dell’area, cominciando dai miseri rimasugli dell’Ospedale. Una magnifica siepe di lavanda si allunga in piena fioritura. Alcune macchine belliche per scagliare pietre (“trébuchet”, “couillard”, catapulte…), che in realtà servivano all’assedio, non alla difesa, di una piazzaforte.

Proseguendo sullo sperone di roccia, alla cui destra è scavata la Val d’Enfer (si dice vi si sia ispirato anche Dante) e di fronte al quale sono visibili le tracce delle antiche miniere di bauxite (il nome del minerale viene proprio da questo posto), troviamo l’anello in pietra di un mulino a vento ormai del tutto svuotato. Dall’altra parte, il monumento al poeta contadino provenzale Charloun Rieu, citato da Montale in Fuori di casa. In basso, prati, vigneti, ulivi distanziati, a sesto d’impianto regolare.

Torniamo verso la cittadella e la torre saracena. Un ariete con tettoia di protezione per chi lo utilizzava: ennesima arma d’assedio. Sotto alte rocce scarnificate dal vento, ci vengono mostrati i resti di una chiesa, della sala del trono, della dispensa e di altri ambienti di vita comune. Oltre, verso la cappella di San Biagio, ove è proiettato a ripetizione un video sui borghi provenzali visti dall’elicottero, rovine di case private.
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Saliamo in cima alla torre, rischiando più volte di scivolare sulle incurvature della superficie di pietra liscia, e cogliamo una bella visione d’insieme dei Baux. La luce è molto forte, ma appare, in trasparenza, opaca di caligine: non si vedono il mare a sud e le montagne a ovest. Gradualmente, l’umidità sale e si condensa a formare quasi una lievissima garza di nuvole, o almeno una foschia alta. Uscendo dalla biglietteria, troviamo – a poca distanza – un bar dai prezzi assai onesti, dove ci rifocilliamo con una saporita pizzetta, un gelato di frutta, dell’acqua fresca.

Partiamo con direzione Salon. Tutta la Provenza appare schiacciata dalla luce, seppur velata, del sole di fine giugno. Proseguendo per Aix, si riaffaccia la Sainte Victoire: stavolta, la sagoma trapezoidale del “giusto” lato cézanniano, man mano ingigantita. Verso l’Italia, la velatura di nubi si fa più consistente, ma non piove…
Marco Grassano

Didascalie:
– “Ombre rosse” in Camargue…
– La duna costiera vista da est; al centro, lontanissima, la chiesa.
– I Baux dalla torre saracena.

  • Prima puntata
  • Seconda puntata
  • Terza puntata
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