Tredicesima puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Di nuovo nel viale, ci fermiamo a pranzare sotto gli ombrelloni del Wally’s. Tavoli e panche di rustico legno scuro. Cuscini arancio e zebrati. Ci manteniamo sulle insalate vegane. Alle 12.30, il carillon della vicina torre orologiaria esagonale attacca un motivo che non identifico. Non una marcetta, comunque, ma una melodia abbastanza complessa, dlin dlan / dlan dlan dlan dlan. Mi viene in mente Il clavicembalo ben temperato, di Bach, però potrei anche sbagliarmi. La scampanata verrà riproposta, negli stessi termini, alle 13 e poi alle 14.
A una trentina di metri dal ristorante, in una piccola casa dalla facciata sobria, la succursale della libreria Van del Velde, cui è collegato il limitrofo museo Hannema Huis. Il salone è ampio, moderno. Escludendo la ridotta sezione anglofona, l’offerta di libri, divisi per genere e argomento, è tutta nella superbamente incomprensibile lingua olandese. Acquistiamo, qui alla cassa del negozio, i biglietti d’entrata per l’esposizione storico-culturale.
Lo spazio tra i due edifici, ammattonato, è coperto e chiuso alle estremità da robuste intelaiature a vetri. Nella teca appena oltre l’ingresso, un’antica brocca sbreccata lascia colar fuori le monete che vi erano state riposte. Ci accoglie, con cortesia davvero squisita (Where are you from? Ah, you speak good!), una signora sulla settantina, forse una volontaria. Ci informa, indicandone il ritratto, che il proprietario iniziale di questa casa si era rifugiato quassù dal Sud della Francia, dopo il massacro degli Ugonotti.
Ci accompagna quindi, subito di fianco, in un tinello dal pavimento in marmo, a scacchiera. Vi si affacciano apparenti armadi, che sono in realtà – secondo quanto ci dice e ci mostra, aprendo le ante – corte cuccette in cui dormire seduti. All’epoca, infatti, ritenevano che sdraiandosi ci si sarebbe resi vulnerabili all’attacco degli spiriti maligni.

Una scala di legno massello, sul cui pianerottolo troneggia il ritratto già visto, ci conduce al piano superiore.
Una personale di scultura contemporanea: Beelden (cioè “Immagini”), dell’artista Ilse Oelbers – figure animali e umane in legno, bronzo, gesso e pietra, di grande, plastica espressività.
Segue la parte di opere storiche. Pavimento e travature del soffitto come in un vecchio veliero. Una ricchissima serie di intensi paesaggi (terrestri, anfibi e marini) dall’ambientazione locale. Un gruppo di fratacchioni sghignazzanti, uno dei quali somiglia al Cavalier Silvio. I libri dello scrittore Simon Vestdijk, nativo di questa cittadina (dunque sarebbe lui il presunto venditore di giornali… o si tratta di un suo personaggio? In ogni caso, a ripensarci, l’effigie potrebbe benissimo essere quella del giovane James Joyce…). Ci ripromettiamo di cercarli in italiano: ammesso che esistano.

Si passa a documentare la navigazione (commerciale e baleniera) e quindi l’artigianato, soprattutto dell’argento e della ceramica biancazzurra (tecnologia probabilmente importata dalla Penisola Iberica, con l’arrivo degli ebrei sfuggiti alla regina spagnola Isabel la Católica e al suo pio genero portoghese Manuel I). Una statuina muliebre con la gonna sorretta da un guardinfante mi ricorda quelle analoghe, seppur arcaiche, esposte al Museo cretese di Iràklio. Molto belli anche i mobili in miniatura realizzati per le case di bambola.
Usciamo e ci dirigiamo verso la stazione, lungo i navigli seguiti all’arrivo. Strada facendo, ci fermiamo in un negozio di alimentari, a rifornirci d’acqua. Ci stupisce non poco trovarvi in vendita sacchetti di fusilli e farfalle prodotti in Puglia dal Pastificio del colle.
Andiamo a casa per prendere le biciclette e riportarle al noleggio. Appena prima dell’Università, un cantoniere comunale innaffia i vasi di fiori appesi al parapetto del ponte, utilizzando una bacchetta (o lancia) metallica come quelle che si usano per irrorare il verderame nelle vigne. A un palo della luce è affisso un manifesto che annuncia un tributo ai Dire Straits, con la partecipazione dell’ex componente Chris White e di “six world class musicians”; lo spettacolo si svolgerà al WTC expo di Leeuwarden il 25 maggio 2023. Ferma accanto alla caffetteria Subway, un’antiquata (anni Cinquanta, direi) auto rossa dalla cappotta beige. Non ne riconosciamo il modello, ma sui copricerchioni cromati spicca la V di Volvo.
I “ciclisti” ci restituiscono la caparra e ci salutano cordialmente. Mentre siamo ancora dentro, i nostri velocipedi vengono assegnati, senza soluzione di continuità, a un gruppo di famiglia appena giunto.
Per la cena è ancora presto. Ripercorriamo la Grote Kerkstraat. A metà cammino, un palazzotto – cui l’altro giorno non avevamo fatto caso – presenta sull’architrave due targhe di maiolica azzurra: Holdinga Stins e Vitaulium.

Altre due targhe, assai più prolisse (in carattere onciale la prima, in corsivo inglese la seconda), sono murate in prossimità dell’angolo con la viuzza traversa; l’unica parte a noi leggibile del loro impervio fiammingo sono le date 1607 e 1762. Svoltiamo nella trasversale seguente, dopo la caserma convertita a uso ricettivo. Verso la fine, immortaliamo il gatto miele scuro col mento bianco che sta acciambellato nel cesto di lana grigia, intrecciata a maglia, esposto in una vetrina.
Scegliamo il ristorante Efeze, porta a porta con quello di ieri sera. La temperatura ci consiglia, nuovamente, l’interno. Si tratta di un locale turco, non privo, però, di caratteristiche e abitudini indigene. Pavimento in ceramica, a piastrelle esagonali da moschea. Pareti con rettangoli di mattoni a vista. Tavolini impiallacciati di abete. Seggiole dalla comoda imbottitura.
Ordiniamo zuppa di pomodoro e sebzeli sote, ossia stufato di verdure miste: cavolfiori, zucchine, melanzane, pomodori, peperoni rossi e verdi, il tutto aromatizzato con aceto, cipolla, finocchio e pepe nero. Il piatto risulta, in effetti, abbastanza piccante. Ci vengono anche servite ciotole di insalata fresca (lattuga, cetrioli, carote…), di riso al pomodoro e di patatine fritte all’olandese. Ester beve Pepsy zero, io acqua frizzante (sparkelend) marca Sourcy. Concludiamo col sorbetto al limone.
La cameriera che ci serve – mossi capelli biondi, sulla quarantina, abbastanza graziosa, evidentemente autoctona – ci domanda, in inglese, di dove siamo. Ci chiede, allora, come si traducono in italiano “Thank you” e “You are welcome”. Glielo dico, e le aggiungo anche i corrispondenti termini greci, vista la stretta parentela tra i dolciumi neoellenici e la cucina turca. Sempre conversando con garbata simpatia, la donna ci accompagna alla cassa, in fondo al lungo bancone nello stesso legno chiaro dei tavoli, e ci fa pagare. La salutiamo con una stretta di mano e un sorriso.

Per digerire, e per accomiatarci anche dal borgo, ci mettiamo a passeggiare un po’ lungo il canale. Imbocchiamo il primo vicolo, in corrispondenza della piazzuola-ponte con la statua equestre. Scattiamo foto. Ci immettiamo quindi, verso sinistra, nella Bagijnestraat, che il sole occiduo prende d’infilata. La domina, in fondo, la torre medievale vista dalla corriera mentre andavamo ad Ameland. In effetti, l’imponente fabbricato sorge su una piazza adiacente all’angolo tra la Kleine e la Grote Keerkstraat.
Nell’altra direzione, raggiungiamo, dopo pochi metri, la viuzza del negozio antiquario Gerbenzon. Alcuni ragazzi chiacchierano sui gradini di accesso del Bar & Kitchen Double B. Tornati sul naviglio, oltrepassiamo la strada che precede immediatamente la nostra; dalla fila di pareti a sinistra sporgono, rampando verso la mezzeria, le aste di bandiera dell’associazione studentesca Abydos. Non andiamo subito a casa: tiriamo innanzi e svoltiamo nella via successiva, che ci riconduce alla piazzetta su cui si affaccia l’edificio dalla spigolosità precolombiana. Adesso sì che possiamo rientrare.
Marco Grassano
Tredicesima parte. Segue