Quinta puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Smanettando in Rete, Ester trova un caffè dove servono anche colazioni senza componenti animali. Con l’ausilio del navigatore, lo cerchiamo. Seguiamo il tratto percorso ieri sera, verso il monumento equino. Un vicoletto interamente soffittato da un’enorme, lunghissima scultura incombente, che imita lo scheletro di un lucertolone. Ci ficchiamo, pochi metri dopo, in un passaggio ancora più angusto, di nude pareti scurite dal tempo.

Uscendo dal budello, ci troviamo di fronte la mole della recente costruzione – a superfici esterne cieche – che ospita, assieme a negozi (Scapino), il Friesmuseum. La aggiriamo. Arriviamo a una piazza in cui hanno posizionato una sorta di boschetto itinerante: alberelli messi a dimora in cubitali vasi di legno, ricoverabili nella brutta stagione o trasferibili alla bisogna. Attraversiamo lo spazio aperto e ci lasciamo sulla sinistra un incongruo palazzo neoclassico, forse il Municipio.
Ecco davanti a noi, d’angolo con un vicolo, la grezza facciata del Douwe Egberts. Una ragazza in grembiule nero sta allestendo i tavoli esterni. Sul bancone sono collocati, in serie, i vari prodotti ALPRO. La lista delle consumazioni, esposta in alto alle spalle della barista, riporta, sorprendentemente, termini in pretto italiano: Espresso, Ristretto, Lungo, Cappuccino, Caffè Latte, Latte Macchiato…
Ci vengono disposti, su un vassoietto, i due bicchieroni schiumanti ordinati (soy milk e almond milk), assieme alla madeleine di agrumi che ho scelto per me. Andiamo a posizionarci nel salone sul retro, a un tavolino tondo, a ridosso di una parete cui sono appese foto in bianco e nero (di disparatissimo argomento) e sull’angolo con una vetrina affacciata sulla viuzza laterale. A dispetto dell’ora e del clima, l’aria condizionata marcia a pieno regime. Questi olandesi sono pazzi, mi vien da pensare.
Uscendo, imbocchiamo la via subito a sinistra, che dovrebbe costituire un percorso più semplice. Tante variegate vetrine anche quaggiù. Una spazzatrice in funzione la sta percorrendo. Direi che ci tengono molto, alla pulizia delle strade…
Ci prepariamo e usciamo di nuovo, diretti al terminal degli autobus. Prenderemo la corriera per Holverd e quindi il battello per Ameland. Essendo domenica, lo SPAR è chiuso. Compreremo qualcosa di passaggio.

Di fianco all’Università, un secondo boschetto mobile si affaccia sul canale. Eccoci alla Stazione, che ha mantenuto le linee architettoniche della tradizione ottocentesca (somiglia a quella di Tortona, inizio del nostro viaggio…) pur se circondata da titani in vetrocemento. All’ingresso, altro boschetto spostabile [Nota 1]. Nell’atrio, un piccolo ma fornitissimo supermercato, aperto. Vi compriamo acqua minerale e una stecca di fondente Tony’s chocolonely, già apprezzato quattro anni fa.

A continuazione, la batteria di partenza dei bus, afferenti al gruppo societario di autolinee e ferrovie ARRIVA: 15 marciapiedi, contrassegnati – da destra verso sinistra – con le maiuscole dell’alfabeto. Ci accomodiamo lungo il sedile di assicelle della pensilina, in attesa della nostra corsa. Altri passeggeri dall’aspetto stravagante; in particolare, un gruppo di giovani biondicci, agghindati e attrezzati come lo sarebbero, in questo periodo, a Rimini.
Facciamo i biglietti salendo. Paghiamo col bancomat. All’orario stabilito, puntualmente, la corriera parte e si dirige verso Nord. Prende a bordeggiare, quasi subito, un ampio canale, congiunto ad altri minori. Il lento declivio alberato ed erboso della sponda opposta ci ricorda di nuovo Utrecht. Una tozza torre medievale sovrasta case e viali.
Lasciamo indietro il naviglio e proseguiamo fra quartieri azzimati, sempre più verdi, finché non sbocchiamo di nuovo nella caratteristica, immutabile campagna, fatta di coltivi, pascoli, chiome d’alberi gonfie come nuvole, sparse fattorie dai displuvii acuti. Alcune stalle sono dotate della propria pala eolica, abbastanza grande eppure non spiacevole allo sguardo. Osservandone un paio in prospettiva, ho l’impressione che girino l’una al contrario dell’altra: si tratta, però, di un’illusione ottica, dovuta all’angolazione e al diverso orientamento rispetto ai punti cardinali.
La strada è a scorrimento veloce. L’autobus fila rapido, gagliardo. Rasentiamo ripetuti borghi di case basse e ben distribuite, avvolte nei loro giardini.
Ci approssimiamo a un argine dal dolce profilo, chiuso da una staccionata. Lo costeggiamo. Ci fa ricordare Stavoren, perché anche laggiù sui versanti del terrapieno brucavano le pecore. Dopo un po’ lo scavalchiamo, per attraversare, lungo un rettilineo, un’area anfibia, incolta ma quadrettata da fossati. Man mano che avanziamo, le superfici acquee aumentano. Arriviamo, in breve, al porto dei ferry boat (veerboten, in lingua locale): capolinea.
Il bancone della biglietteria, curvo e imperlinato, è a destra, subito dopo l’ingresso della palazzina in stile autogrill. La cifra che paghiamo comprende il ritorno. Passiamo i tornelli e usciamo sul molo. Ci uniamo agli altri passeggeri appiedati (i veicoli devono entrare dal portellone). Il sole è velato da cirri. Il vento soffia vigoroso. Stando qui fermi si sente, al contempo, caldo e fresco.
Il grande traghetto, la cui sagoma frontale pareva prima immobile al largo, si avvicina e attracca. Quando è il nostro turno, si aprono i cancelli. Una volta a bordo, prendiamo posto nel salone, su un divanetto di velluto rosso da cui si può sbirciar fuori attraverso i finestrini rettangolari. Davanti a me, il bar ristorante self service.
L’acqua della laguna appare plumbea, opaca, densa, ancor più del Mar de Palha sull’estuario del Tago. La motonave incede lenta e maestosa, tortueggiando fra due schiere di boe: evidentemente, la sua rotta segue i varchi dai fondali meno bassi.
Mi sfila accanto, con passo incerto, un anziano in coppola chiara e giacca di lino azzurro slavato. Lo sguardo rivolto verso terra, a perpendicolo. Indossa occhiali particolari, quasi sperimentasse qualche nuova tecnologia: alle lenti ordinarie ne hanno aggiunto altre due – inclinate all’insù di 45 gradi – prismatiche, sfaccettate come brillanti. Chissà quali problemi di visione lo affliggono.
Barcolla avanti e indietro; sembra non riuscire a veder bene dove va. Cerca invano di aprire una porta alla mia destra, pensando forse che le toilettes siano lì. A fatica raggiunge la scala che conduce al piano di sotto, dove effettivamente stanno i bagni, e scende. Non lo vedo più risalire. Vado anch’io ai servizi, ma non lo trovo. Né lo scorgo più nel salone, o fra la gente che si accinge a sbarcare. Avverto una piccola stretta al cuore, di tristezza, o pena, o compassione…
Nota 1: Al ritorno, abbiamo scoperto trattarsi di uno specifico progetto (“Bosk”) di educazione ambientale e di gestione dell’arredo urbano (si legga questo articolo del Guardian).
Marco Grassano
Quinta parte. Segue