Sesta puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Percorriamo longitudinalmente, diretti verso la terraferma, il molo, asfaltato e diviso in corsie. Ci sentiamo quasi formichine, a camminare su questa vastità di spazio. Una darsena, a destra. Un ristorante: offerta che, per ora, non ci interessa. Un noleggio di bici (all’occorrenza, dotabili di carrozzini a rimorchio, per trasportarvi cani e bimbi piccoli) e di motorette elettriche, dai grandi parafanghi verdi e dalle ruotozze obese. Scavalchiamo, anche qui, l’argine camuso, chiazzato da rari ovini. Seguono subito alcune esigue stalle, poco più che capanni. Cavalli scuri brucano non lontano da un fossato colmo, recinto con fili elettrificati.
Poco prima della rotonda con quella che sembrerebbe una circonvallazione, la palazzina color nocciola, abbastanza ordinaria, di un piccolo centro commerciale, munito di bancomat esterno. Di fianco, in riva a un fosso villoso di canne, una specie di scultura in cemento (o forse è qualcosa che aveva una misteriosa funzione pratica?) a forma di costola di balena.

Un viale in autobloccanti dà inizio al villaggio di Nes. Ci sorpassano molti ciclisti. Prendiamo poi a sinistra, lungo una via di villette basse dai ripidi spioventi e dagli ampi giardini, che mi ricorda il quartiere in cui viveva Emily Dickinson, ad Amherst, nel Massachusetts. Ci fermiamo, poco oltre, ai tavolini esterni del De Herberg eet & drinkcafé, per un veloce pranzo di zuppe col pomodoro. Molto legno cupo, attorno, quando entriamo a pagare e a visitare i servizi, sul fondo.
Il centro storico è marcatamente turistizzato, fitto di proposte gastronomiche ma anche di negozi. Lo percorriamo un poco, prima di cercare la strada che conduce alla spiaggia oceanica. Attraversiamo un rione ricco d’alberi, con caratteristiche architettoniche arcaiche. Due grandi date in ferro – 1644 (sulla torre dell’orologio) e 1699 (su una facciata) – ce ne confermano la vetustà. Mi vengono in mente le costruzioni all’interno del parco del castello di Piovera, anch’esse in mattoni a vista. I versanti dei tetti rivolti a settentrione appaiono felpati di muschio. Alcuni giardini sono un rigoglio di ortensie viola pallido e di altre infiorescenze versicolori. Una pianta che si direbbe, seppur improbabilmente, di tamerice, ma che è forse qualche conifera a noi ignota. A pochi passi, un gatto fulvo si acciambella dietro una siepe.

Ritroviamo la via più commerciale, sempre costituita da edifici bassi. Di fronte a un paio di questi villini, banchetti con libri usati olandesi, in vendita a poco prezzo. Parrebbero, a prima vista, romanzi popolari, tranne, di sicuro, Terugkeer naar Berlijn [Nota 1], di Cees Nooteboom.
Gruppi di persone pedalano in su e in giù. Svoltiamo verso nord. Le villette si fanno più rade e recenti. Una protratta siepe separa il percorso ciclo–pedonale asfaltato, sulla sinistra, dalla carreggiata automobilistica ammattonata. Si diparte verso la campagna mossa e verdeggiante una straducola d’asfalto, segnalata come senza uscita ma che due ciclisti imboccano lo stesso. Pecore sdraiate a ridosso del rudimentale cancelletto per accedere a un pascolo. A destra, una balenottera in materiale indefinibile (verosimilmente, plastica che imita il bronzo) annuncia il Natuermuseum. Ci richiama alla memoria la copertina di Moby Dick.
Un (ridotto) ecomostro ospita l’Hotel Nordsee e il ristorante Vincenzo. L’orrore viene però compensato, subito dopo, da una casupola col tetto di canne, al modo delle cabanes camarghesi. Un centinaio di metri più in là, il locale Osorio / World’s kitchen. Come l’argenteria Almeida, di Chanià… Sono arrivati ovunque, gli amici portoghesi!
Avanziamo ora in mezzo a due pareti di vegetazione, sporadicamente interrotte da imbocchi di sentieri.
In prossimità della duna litoranea, compaiono, a sinistra, un corposo parallelepipedo residenziale e altre costruzioni più contenute. Da qui in poi, le macchine non possono circolare. I parcheggi sono per le biciclette.
Superiamo il dosso sabbioso, tenuto insieme dalle radici dell’ammofila: proprio come ricordiamo di aver visto in Maremma, in Camargue e ad Aveiro. Ecco davanti a noi la spiaggia sconfinata, di rena bianca, finissima. Diverse persone vi sono stese o vi camminano: ma microscopiche, sperdute, tra questa immensità. Vola, guizzando, un lontano aquilone. Un bar a palafitta, di legno e vetro; refoli fanno mulinare, come minuscoli marosi di arida risacca, i granelli polverulenti sul marciapiede rossastro che lo costeggia. Mi viene da parafrasare Paolo Conte: “Un valzer di vento e di sabbia…”.
Torniamo indietro per qualche centinaio di metri e ci infiliamo in una carrareccia di terra e foglie – notata prima – che si immette, verso Est, fra il verde. In aderenza alla duna, il viottolo fende una flora xerofila di cespugli ed erbe. Prendendo, al primo bivio, in direzione Sud, invece, si inoltra in un bosco di abeti e caducifoglie, evidente prodotto dell’intervento umano. In certi tratti, è il camminamento a separare le due tipologie di piante, come quando, sul monte Giarolo, si scende dalla cima ai Piani di San Lorenzo.

Arriviamo a una radura. In mezzo, un cippo di mattoni senza nessuna iscrizione che lo giustifichi. Un tavolaccio da picnic, con le sue panche; vi salgo, per offrire alla foto che scatto un orizzonte più ampio. Procedendo, il terreno conosce inattesi dislivelli, a volte marcati. In qualche punto, sembra di trovarsi nel ripido bosco di vetta del Giarolo, appena sotto le grandi antenne.
Il navigatore si mostra prezioso pure in questo frangente: invece di perderci in un gomitolo di sentieri più o meno segnati dal passaggio, riusciamo a tornare sullo stradale dell’andata, a ridosso dei primi edifici del paese. Notiamo un rione di sparse case unifamiliari, dalla sobria modernità e dagli inclinati tetti di canne.

Esploriamo ancora un po’ il borgo. Il viale di ridenti villette giardinate (ma vi sono anche attività gastronomiche, come l’inverosimile Pizzeria San Remo) che punta a Ovest si incrocia con la circonvallazione, dove transita qualche automezzo.
Andando in direzione opposta, rifacciamo la via di case più antiche. Su un rozzo tavolino dal ripiano trasparente sono esposte in vendita (Alles € 0,50) conchiglie di varie specie: cannolicchi, valve di ostrica e di acanthocardia, gusci di gasteropodi. L’abitazione della famiglia Molenaar: chissà se c’è qualche remoto legame coi Molinari di Frugarolo…
Le sponde boscate di un laghetto, che sembra far parte di un’oasi naturalistica. Un’anatra marrone e beige galleggia placida fra le minute increspature della superficie blu scuro. Un’oca dalle tonalità caffelatte indugia lungo la staccionata che demarca la riva. Speriamo non ci aggredisca. Un altro grosso anatide (nero, con ascelle alari bianche e mascherina rossa) sta accucciato sull’asfalto della strada. Dietro di noi, i padiglioni di un ostello e, oltre un prato, un’appuntita chiesetta, non raggiungibile passando di qui.

Per tornare a imbarcarci, tiriamo dritti attraverso questa parte dell’abitato, seguendo la Paasduinweg. Di nuovo, qualcosa di indefinito mi fa pensare alla Piovera della mia infanzia. Al centro di una biforcazione, la statua in finanziera e bàculo di un certo Kardinaal De Jong: presumo che la prima parola rappresenti il nome di battesimo, non certo un titolo ecclesiastico, del tutto fuori luogo [Nota 2]. Svoltiamo di 90 gradi verso Sud. Aria vaga di una perduta Piovera anche lungo questo ombroso stradello pedonale selciato, che fila fra casette sparse, aiuole fiorite, alberi e siepi. Mi fermo a osservare una chiesuola travestita da villino.
La via in stile Massachusetts, il viale di accesso al paese e quindi l’argine, al di sopra del quale oscillano nell’aria, in maniera scoordinata, le mezzelune sghembe di sette o otto aquiloni.
Ripercorriamo il molo. Alti sulle nostre teste, i gabbiani volano con infinita abilità, lasciandosi scivolare di lato e persino all’indietro. Muovono le ali per mantenere la portanza, ma si affidano al robusto vento per la propulsione. Oppure si abbandonano totalmente a esso, immobili come alianti.
I taxi a furgoncino De Boer, già visti in paese. Dev’essere un cognome piuttosto diffuso.
Sul traghetto prendiamo posto specularmente rispetto a stamattina, dato il senso di marcia invertito. Il bar ristorante è ora alla mia sinistra. Fuori dal finestrino, banchi di detriti galleggianti o, più facilmente, fondali limosi lasciati affiorare dalla bassa marea, su cui i gabbiani si posano in cerca di cibo.
Per la cena decidiamo di mantenerci lungo la riva destra del canale, dove si trova pure la libreria. Ci fermiamo a uno dei primi ristoranti, Het Broodhuys. Il cameriere ci propone un tavolino sulla chiatta prospiciente – da seduto, il sole occiduo mi riverbera ancora negli occhi – e ci consegna un menù con vivaci foto a colori, rigorosamente in olandese. Riusciamo a decodificarlo grazie a un’applicazione del cellulare di Ester. Ordiniamo i soliti piatti vegani (comunque, molto saporiti). Ci servono, spontaneamente, le magnifiche patatine fritte indigene. Quando vado all’interno a pagare (legni, luci soffuse, pavimento a scacchi), il trentenne che ci ha accuditi mi parla in un impeccabile spagnolo, per il quale mi complimento con lui. Mi spiega che sua madre è colombiana.
Accucciato su un cartone di fronte alla caffetteria Subway, sonnecchia un gatto dalla schiena nera, testa tigrata di grigio, gola e zampe bianche: un bel micione grasso, lustro e soddisfatto.
Marco Grassano
Sesta parte. Segue
Note
[1] Ritorno a Berlino, ci informa Google Traduttore.
[2] E invece era proprio un cardinale, nato ad Ameland nel 1885…