Tutti chiedono compassione e altre microstorie è l’ultimo, piccolo libro di Francesco Permunian, uscito nella collana S-Confini, curata da Fabrizio Coscia per Editoriale Scientifica, un volumetto fatto di “residui e calcinacci” (parole dell’autore) ossia di frammenti narrativi, riflessioni, note a margine; così come è lo stesso scrittore di Desenzano a parlare di “zibaldone” (non a caso il termine più utilizzato dai recensori, estensibile ad altri suoi titoli) nella nota di Antonio Gnoli, un articolo su “la Repubblica” di una decina di anni fa e qui riprodotto che raccontava di un incontro a tre, presente anche il fotografo Mario Dondero, co-protagonista della seconda parte del volumetto, L’angelo di Dondero.
Un dittico dunque, nel quale forse il B-side avrebbe potuto scambiarsi l’ordine di collocazione con la prima parte: laddove il racconto più lungo descrive e reinventa, fra appunti e visioni, il viaggio nel Polesine in compagnia del fotografo (poi scomparso) fra i luoghi storici della Resistenza, la prima parte esemplifica la congerie diaristica, frammentaria, sospesa fra nota e microfiction che a Permunian è peculiare (un autore da lui amato è Régis Jauffret, un maestro del genere, non adeguatamente riconosciuto, come meriterebbe, fra i migliori scrittori francesi odierni, autore fra l’altro di due volumi che portano il titolo di Microfictions).

Come i suoi lettori sanno bene, Permunian frequenta la malinconia, l’invettiva, l’ironia e per fortuna anche una sottile, sorniona fumisteria. L’autoironia gli consente di allentare i lacci claustrofobici dell’umore malmostoso in agguato nei suoi libri: “Bruscolini sbadatamente dimenticati nel fondo dei cassetti della mia memoria, ecco cosa sono gli appunti che compongono la prima parte di questo libretto”.
L’understatement nulla toglie alla caustica voce acuminata contro obiettivi polemici ricorrenti quanto inevitabili – per lo più in ordine sparso: i suoi stessi colleghi, l’ambiente letterario in generale, “tutte quelle nocive e infestanti scuole di scrittura”, il provincialismo del Nord-Est; e non ultima la Chiesa e i suoi ticchi dispotici.
Permunian è parte di quella schiera di scrittori che le rifiutano tutte pur nutrendo amori solidi e forse imperituri ma sempre tenuti a distanza da un temperamento idiosincratico che difficilmente potrebbe farli intruppare in gruppi e tendenze di sorta. I riferimenti ci sono: Ceronetti, Bernhard, Cioran etc ma appunto ideali, nomi non a caso anch’essi troppo marcatamente cifrati in una sigla personale per farne membri di correnti o peggio, in vita, di comunelle letterarie.
La stizza di Permunian è spesso rivolta verso “l’insopportabile (e insopprimibile) blabla quotidiano di certi intellettuali e opinionisti onnipresenti in ogni programma radiofonico e televisivo (…), un mare di flatulenze verbali che ci affliggono a ogni ora del dì e della notte, un autentico massacro delle più elementari regole della buona creanza e del vivere civile.”
Ora, Permunian è lontano dalla romanzerìa di trame e colpi di scena, ma non per è questo ignaro del necessario gradiente formale che, con tutto il disincanto possibile, trasforma l’appunto beffardo o lo scatto polemico in letteratura.
Così, il narratore cambia continuamente pelle fino al punto di rovesciarsi nel suo contrario, come nel caso del raccontino Maschere e zecche, il cui protagonista è un autore di successo che a un certo punto non ne può più di sé stesso, della rappresentazione con cui si vende al proprio pubblico; dopo essersi ubriacato per anni di vanità e compiacenza mediatica decide di rompere con quel circo e di darsi alla lettura, in particolare del Rapporto della Società Italiana di Medicina Preventiva, vera “bibbia per ipocondriaci” in cui il tipo di scrittore che era è inventariato come autentico pericolo pubblico.
C’è poi lo scrittore che “Tanti anni fa, quand’ero più ingenuo e incosciente, pure io credevo al potere salvifico della scrittura, esattamente come un monaco crede nelle Sacre Scritture. Oggi, invece, non ci credo più”, e che quindi si rassegna a produrre marchette editoriali (ma sotto falso nome, per un residuo di vergogna). Come ad adombrare attraverso voci fantasmatiche di scrittori immaginari (per quanto riconoscibili nello loro tipologie oggidiane) o quella verosimile dell’autore empirico il distacco di chi ormai non si fa troppe illusioni sul mondo che lo circonda. Al patchwork dei “materiali di risulta” della prima parte, in cui si alternano comicità e dramma, si aggiunge il cambio di passo della seconda.
Rievocando pagine nerissime della nostra storia, mentre Dondero fotografa alcuni luoghi segnati dalla brutale violenza fascista, Permuninan ne narra episodi particolarmente truculenti, registra i nomi delle vittime partigiane, e insieme riesuma incubi della propria infanzia e della memoria di fantasmi diffusi nella caligine della pianura veneta. Ma anche nella nota documentale s’insinua l’immaginazione dello scrittore fra ossessione dei defunti e falotica fascinazione degli spettri – vivi e morti si confondono nella cosmica rêverie in cui pare abbandonarsi il mondo.
Forse bisogna avvicinare più da presso la follia – come fece Permunian nelle sue prime ricerche -, il crinale che ce ne mostra l’abisso, per capire che, per quanto assurdo sembri, lo scetticismo più radicale e il bisogno di una vita giusta, dignitosa possano convivere nella stessa visione del mondo.
Michele Lupo
Francesco Permunian
Tutti chiedono compassione
e altre microstorie
Editoriale Scientifica
Collana S-Confini
2023, 152 pagine
14 €