Nel panorama letterario del diciannovesimo secolo c’è un autore che, a mio parere, meriterebbe una maggiore visibilità e che invece è considerato uno scrittore di nicchia, sconosciuto ai più e adorato dai suoi soli estimatori.
Questo scrittore è Leo Perutz, praghese di nascita e viennese di adozione, che amò l’Italia per aver vissuto alcuni anni a Trieste e Milano.
Dicevo di Perutz come scrittore di nicchia: egli rappresenta infatti un curioso caso letterario, in quanto, pur abbracciandone molti, è difficilmente classificabile in un genere definito.
La sua carriera venne di fatto spezzata dall’avvento del Nazismo (Perutz dovette infatti fuggire da Vienna subito dopo l’Anschluss) e riprese dopo molti anni grazie a Jorge Luis Borges che inserì “Il marchese di Bolibar” in una collana di romanzi gialli e del mistero, sebbene la definizione di romanzo giallo sia impropria; è piuttosto un noir, per l’incedere della narrazione con una modalità investigativa della vicenda, e il finale sospeso ed irrisolto.
Di notte sotto il ponte di pietra
Gli altri suoi romanzi vanno ad assumere di volta in volta sfumature differenti, andando a comporre un variegato mosaico che in letteratura non mi è capitato di vedere.
Proprio parlando di mosaico, questo è l’effetto suggestivo a cui si va incontro leggendo “Di notte sotto il ponte di pietra”, un libro perfetto come il meccanismo di un orologio, ambientato tutt’intorno a Pražský hrad, il castello di Rodolfo II d’Asburgo, l’ultimo sovrano del morente Sacro Romano Impero d’Occidente, che amava circondarsi di artisti, intellettuali, alchimisti, attori e ciarlatani.

Tutt’intorno a Malá Strana, il pittoresco quartiere ai piedi della reggia rinascimentale, un’umanità immaginaria e sofferente intreccia la propria vita con personaggi realmente esistiti, che intorno a quel castello hanno davvero gravitato. Con l’incedere del racconto i tasselli rappresentati dalle vite dei protagonisti si compongono fino a delineare la struggente storia d’amore (vissuta esclusivamente in una dimensione onirica) fra Rodolfo d’Asburgo e Esther, la moglie di Mordechai Meisl, l’usuraio nonché principale finanziatore del costoso carrozzone della corte imperiale.
L’incantesimo che permette ai due amanti di incontrarsi ogni notte sotto Karluv Most, il ponte che scavalca la Moldava collegando le due parti della capitale ceca, è Rabbi Jehuda Löw, il glorioso capo della comunità ebraica praghese, colui che secondo la leggenda ha creato il Golem.
Come il ponte Carlo unisce due zone della città, così il rabbino unisce la Rosa (simbolo imperiale) e il Rosmarino (che rappresenta l’umile origine della donna) permettendo con quel sortilegio il compimento di un amore che nella realtà non potrebbe essere.
I tre elementi dominanti di questo romanzo, la magia, l’immanenza della Storia nelle vicende delle vite ordinarie e la concorrente influenza di esse sul corso degli eventi, sono ricorrenti in tutti i romanzi di Perutz.
Il marchese di Bolibar
Ne “Il Giuda di Leonardo” un oscuro mercante incrocia nelle taverne di Milano un Leonardo da Vinci intento a cercare volti da attribuire ai discepoli del suo Cenacolo, e ne ispira le scelte con i propri meschini comportamenti.
In “Turlupin” un attore teatrale influenza inavvertitamente addirittura l’andamento di una rivolta contro il re di Francia. Nel già citato “Il marchese di Bolibar” (romanzo regalatomi dal direttore di ALIBI Online e attraverso il quale venni a conoscenza di questo meraviglioso autore) il reggimento Nassau viene sconfitto non per la superiorità degli avversari ma per i comportamenti irrazionali di alcuni suoi ufficiali, animati da un demone autodistruttivo.

E qui si comprende quale sia il sottile e beffardo meccanismo che regola l’intera produzione di Perutz: un filo rosso che attraversa tutte le vicende da lui narrate, una specie di demone appunto che si annida ovunque, lungo il dipanarsi degli eventi della grande Storia, manifestandosi in modo a volte grottesco, a volte orrifico, a volte quasi comico, in ogni caso condizionandola con l’elemento dell’irrazionalità.
Il cavaliere svedese
L’incessante contrasto fra logica e metafisica è l’essenza stessa di questo autore, sospeso fra la cultura ebraica e le sue leggende da una parte, e dall’altra gli studi di matematica e statistica compiuti in gioventù.
Altrove ho letto che Perutz non ha la prosa sofisticata né la profondità di pensiero per essere definito un grande romanziere.
Non sono dello stesso parere: osservando con un fare quasi distaccato e descrivendo in modo asciutto ed efficace i propri personaggi, le loro debolezze e i comportamenti irrazionali, Perutz disegna un mondo penosamente umano, combattuto fra gli istinti a volte illogici e gli steccati intransigenti delle regole della natura.

Basta vedere l’umanità variegata e viva composta da briganti, disertori, nobiluomini e vescovi, demoni e angeli, che costituiscono la scena dove si svolge la struggente trama de “Il cavaliere svedese”, il mio preferito fra i suoi romanzi.
Per chiudere, leggendo Leo Perutz è come se Borges, proprio lui, si fosse divertito ad entrare di sottecchi nei romanzi di Agatha Christie per scombinarne i precisi meccanismi e far venire il mal di testa al povero Hercule Poirot con le contraddizioni proprie dell’essere umano. Qualcosa che ho trovato anche ne “Il maestro e Margherita” di Bulgakov.
Proprio in questa contraddizione o dicotomia sta la sottile lettura che Perutz dà dell’uomo sofferente del secolo breve, e del suo lamento disperato di fronte ai tragici sconvolgimenti del suo tempo, di cui il protagonista di “Tempo di spettri” è l’emblematico rappresentante.
Simone Cozzi