Forse è solo con la finzione dell’arte, della scrittura, che possiamo se non dire, avvicinare la verità? Sembrerebbe così leggendo l’ultimo libro di Tiziano Scarpa, il quale, pressato da anni dalla stessa domanda, perché nella vita hai deciso di scrivere, a un certo punto ha deciso di rispondere ricordando il momento in cui si accorse, da infante, che “i grandi non mi dicevano la verità”, e che divorando libri scopriva quanto invece riuscissero a farlo gli scrittori.
Con La verità e la biro (Einaudi) si è spinto oltre, presentando il libro come un’opera tutta vera, che tiene insieme ricordi, osservazioni in diretta, intime e teoriche (interessantissime quelle sulla differenza fra il teatro greco e l’arena romana), dialoghi etc, alla maniera di lavori assai diffusi al momento, al confine fra romanzo, saggio, nonfiction etc – fatto salvo questo motivo fondamentale, ribadire lungo tutto il lavoro che egli non inventa nulla, statuendo un’aderenza totale fra l’autore empirico e l’io del libro.

Ne è peraltro nata una discussione con Walter Siti, rimasta a uno stadio iniziale, che avrebbe invece potuto dare il la a una discussione sopra una faccenda non da poco: a fronte della perdita d’aura della letteratura, schiacciata oggi da troppe altre forme espressive, la questione se davvero essa sia in grado di dire la verità che ad altri discorsi è forse negata, non segnerebbe un pesantissimo punto a suo favore?
Quando l’autore veneziano sostiene che nessuno come lo scrittore (dà per implicito, supponiamo, un certo tipo di scrittore: non di mero entertainment) sa fare il lavoro sporco di dire l’indicibile, perché dirlo “ferirebbe chi ci vuole bene, perché ci metterebbe in cattiva luce, perché non è il caso, perché chi me lo fa fare” etc, risulta difficile dargli torto. E prende ad esempio la celebre Mattina di Ungaretti, per dire che ce ne vuole di coraggio per alzarsi, in pieno conflitto, e rivolgersi con quell’arcinoto distico (seppur parafrasato) al resto della truppa.
Il libro Scarpa lo scrive dalla Grecia durante una piccola vacanza, e non è un fatto accessorio: è che, non è una novità, sappiamo benissimo come la letteratura si accosti alla verità attraverso il massimo di finzione, ma dimentichiamo che nessuno lo ha fatto meglio del teatro greco, che “mette in scena qualcosa che succede nell’animo degli spettatori: la tragedia e la commedia sono dei dispositivi fatti per stimolare il pubblico, per farlo piangere o ridere, per farlo emozionare, esilarare, commuovere, compatire, riflettere”.
Il paradosso solo apparente è che se sulla scena tutto è finto, “ciò che accade nell’animo degli spettatori è vero”. Attraverso la finzione lo spettatore scopre di essere agente di emozioni, basta che qualcuno lo stimoli, a differenza del teatro romano che, si pensi ai gladiatori, mostra il dolore e la morte stessa di persone vere e in un certo senso non ci riguarda. Quello di oggi, dice Scarpa, è di nuovo tempo di gladiatori, una regressione storica.
Presenza costante del libro (e tutt’altro che trascurabile nell’opera di Scarpa – per quanto la conosciamo) è il sesso, che con la verità gioca sempre una partita decisiva. Motore che ne avvia le articolate riflessioni è il ricordo di una ragazza, studentessa di filosofia, della quale il narratore rievoca sedute erotiche più o meno riuscite, descritte con la nota perizia stilistica e acuminata esattezza del dettaglio: qui interessante non per le vicende in sé, ma per l’acribia con cui Scarpa cerca di mettere a fuoco il rapporto fra reticenza, pudore e sfrontata esplicitazione dei piaceri preferiti (la ragazza si esprimeva solitamente per eufemismi). Anche l’esperienza nudista – senza sesso – nei pressi di Kos sosta nel tema, caro all’autore, del corpo e delle implicazioni veritative e sociali che sollecita.
Resta la questione sulla natura del vero che Scarpa insegue, di quale vero si tratti, di quanto resti fuori dalla pagina (Scarpa non ha voluto figli; ha sempre immaginato l’imbarazzo, “la colpa e la vergogna” – per uno scrittore che tende a dire il vero -, di doverne dare conto ai figli). In fondo, ogni scelta diaristica – perché diario, proprio se il lettore decide di prendere l’autore sul serio sino in fondo, è il termine più adatto al libro – è parziale.
Ci troveremmo altrimenti dalle parti di Karl Ove Knausgård, e dei sei volumi de La mia lotta, tentativo ammirevole e disperato di non lasciar fuori dalla narrazione nemmeno un rigurgito esofageo. E lasciare da parte questioni epistemologiche più complesse, come il rapporto fra linguaggio e “realtà”. Scarpa si astiene dall’allargare il campo oltremodo, essendo già il tema del rapporto fra io, scrittura e verità non poco impegnativo, e insidioso.
Ora, di questi problematici orizzonti lo scrittore veneziano è uno degli autori italiani più consapevoli – lo è stato fin dagli esordi. Se c’è una cosa che non gli appartiene è il mood naif, eppure sostiene, a differenza di uno scrittore fra i massimi di questo paese, Walter Siti, che sia possibile, in letteratura, parlare di sé in termini veritieri. Che possa resistere un gradiente di trasparenza nel racconto dell’io e che, se comprendiamo bene, per Scarpa tutto ciò corrisponda a un atto politico, dove l’avversario da combattere è l’ipocrisia.
Non sapremmo dire quanto a proposito, Siti ha creduto di avere buon gioco nel biasimare Scarpa sul punto: avocando a sé esperienze si sarebbe detto un tempo trasgressive, clandestine, perciò una maggiore aderenza alla verità del sesso. Quindi a una sua onesta dicibilità.
La questione della verità resta aperta, e di esempi Scarpa nel libro ne dissemina diversi, fra le esperienze scout a quelle con i preti, fra letture pubbliche e vecchi professori; e inserti saggistici, da Dante al comico, dall’amato Goldoni a Cesare Pavese – sempre affrontati con godibilissima verve.
Michele Lupo
Tiziano Scarpa
La verità e la biro
Einaudi
Collana Supercoralli
2023, 232 pagine
18,50 €