Non ricordiamo dove e quando, ma da qualche parte Umberto Eco scrisse che un testo letterario “è una macchina per generare interpretazioni”. Ora, siamo abbastanza certi però che se c’è stata un’opera che più di altri gli suggerì l’affermazione, quella porta la firma di Gérard de Nerval: Sylvie, romanzo apparentemente d’amore, e del più pacifico, fu per il semiologo un congegno ricco di suggestioni, di domande, di possibilità ermeneutiche.
Che egli sottopose a verifica in più momenti della sua vita, a partire dall’infatuazione giovanile e passando per la traduzione einaudiana del 1999 (ora riproposta in una ricca edizione per La nave di Teseo: testo a fronte e lunga meditazione saggistico-bibliografica). La traduzione di Eco seguiva a una già cospicua riflessione esplicitata in corsi universitari, articoli e studi che riapparivano – stante la valenza paradigmatica di cui nell’incipit – in altre discussioni.
Eco attraversa il testo cogliendone i dati problematici della traduzione che il lettore ha modo di confrontare con l’originale, come a tracciare nel farsi stesso del lavoro gli elementi critici dell’officina, perché, come vuole la vulgata che il lettore avveduto conosce, tradurre è interpretare, tradire, forse mentire due volte – insomma, se il protagonista della novella è alle prese con “un’apparizione” (tale è l’amata, ignara) è pur vero che quanto racconta sembra provenire da uno stato alterato, sospeso, liminale.
Talché non è una narrazione lineare quella che vediamo, non c’è nemmeno una vera e propria storia (astenersi malati di trame) se non quella che si succede nella mente del protagonista, che dall’infatuazione per l’attrice Aurélie (poi tornerà in uno dei suoi titoli maggiori) ridisegna fra sé e sé una mappa tutt’altro che geometrica e chiara (Proust, suo estimatore, parlerà di effetto-nebbia) dei suoi amori passati.
Non è un mondo di cose e di fatti il suo, ma l’aereo, volubile e incontrollato vagare fra tempi, luoghi e donne diverse, fra illusioni e cadute, desideri e ideali. Tutto suona molto romantico, rétro, persino ingenuo, se pensiamo che per Nerval, scrittore e viaggiatore inquieto e malinconico, la condizione da cui scrivere era proprio quella onirica; in effetti è vero che le sue opere migliori furono scritte agli anni della schizofrenia (a volte si dà la possibilità che una banalità non smetta perciò di essere credibile).
Anche questo spiega in parte l’attrazione di Eco, scrittore dimenticabile ma studioso acuto, memore della lezione elotiana – la scrittura come fuga dalle emozioni – e mai appagato di quanto negli anni riusciva a cogliere di uno scrittore assai lontano dalla sua sensibilità, con un suo posto consolidato nella storia della letteratura romantico-simbolista, non solo francese.
Così l’oggetto editoriale che ci troviamo fra le mani (“opera scritta su sparsi foglietti in stato di sovreccitazione”: di lì a poco Nerval inizierà la trafila di ricoveri psichiatrici, prima del suicidio) risulta assai straniante, un racconto che vaga avanti e indietro nel tempo, tutto mentale (più che sentimentale come apparirebbe in superficie) e di nebulosa diegesi, passato al vaglio di tabelle, mappe, acribia di analisi – decisiva quella sui tempi verbali, determinanti per creare l’ambiguità di Sylvie -, secondo furore semiotico d’antan.
Ecco, se la semiotica col tempo pare aver perso la sua battaglia, con lo strapotere della “recensionistica” à la Amazon non diremmo di averci guadagnato.
Michele Lupo
Gérard de Nerval
Sylvie
Testo francese a fronte
Traduzione di Umberto Eco
La nave di Teseo
Collana Le onde
2024, 192 pagine
18 €