Si leggono con molto piacere i cinque racconti di Marino Magliani che compongono il suo “Peninsulario” (titolo bellissimo!), pubblicato da Italo Svevo nella collana Biblioteca di Letteratura Inutile, con una prefazione di Filippo Tuena.
Così definisce il libro lo scrittore romano: “composito strutturalmente, ma compatto per l’argomento che lo pervade”. A dare coerenza alle cinque tavole di questo polittico è prima di tutto l’ambientazione nella Liguria di Ponente, cui si aggiunge un’atmosfera di lieve malinconia che sembra sollevarsi come velo di nebbia da ogni pagina. “Sapore amarognolo” lo dice Tuena, mentre nel risvolto di copertina leggiamo un’altra azzeccata definizione per questa raccolta, ovvero “un percorso emozionale oltre che geografico”.

Ciascuno dei cinque racconti è preceduto da un brano – una decina di righe, non di più – in corsivo. Una sorta di cornice, quasi un’epigrafe o, forse, un racconto a sé stante, da leggere con una cartina alla mano, almeno per chi non conosce i luoghi (tutti, comunque, sono un invito a viaggiare, anche solo in poltrona).
Tuena ne riconosce la “matrice calviniana”, accostandoli alla “prosa stupefatta delle Città invisibili”. Concordo. E già questo accostamento molto elogiativo dà indicazione della qualità del libro che si ha tra le mani (come per gli altri volumi della casa editrice, il lettore dovrà armarsi di tagliacarte per separare i fogli di queste “pagine arabe intonse” di “carta Burgo Musa”).
Prosa poetica
I racconti sono ben congegnati e ancor meglio scritti. Erano un po’ di anni che non leggevo prose di Magliani – lo devo confessare – e a questo “secondo incontro” ho trovato maturato il suo stile. È come se l’autore si fosse liberato di quel timore di usare le parole che prima mi sembrava gli bloccasse lo scorrere della frase.
Più e più volte, nella lettura, mi sono soffermato su un passaggio – colpito dalla poesia (in particolare la chiusa del racconto “Il muro di Jantje”), dalla sapiente disposizione delle parole, dall’effetto che producevano – per leggerlo di nuovo e di nuovo assaporarlo. Ma qui mi basta citare una singola frase dal primo racconto (“Poi, secoli di sorrisi tristi e latini, o forse solo luci impetuose”) e un brano tratto da “La quota della frontiera”:
Le vallate, una dopo l’altra, non sembravano neanche collegate tra loro, ma emergevano dal mare come coltellate, e tutto quel vuoto di luce e ombre passava sulla città, sotto i ponti dell’autostrada, nella terra incolta, e poi su, tra le rupi. Gli occhi ne dettavano il ritmo, infilavano gli spazi, spartendo scogliere, palmeti, uliveti secchi e bruciati, ville quadrate, in genere bianche. E ogni oggetto minerale e vegetale aveva l’obbligo di mostrarsi agli occhi e al mare, ma poi erano solo gli occhi a fare tutto, ad assalire per un istante la valle, scuoiando i tessuti di quel mondo statico, calmo, così simile al paesaggio della valle dopo, e nella sua calma così lontano dall’idea di frontiera che si avvicinava tremendamente, segnalata dai cartelli”.
West Coast
Il brano citato si presta anche come presentazione della Liguria di Ponente che Magliani sa descrivere come un pittore fiammingo (anzi “olandese”, è il caso di dire) nei paesaggi e nei personaggi che lo abitano. Nel primo capitolo è una West Coast terreno di caccia per i “residenti della notte”, i “vitelloni” locali, oggi come ieri. Che sagoma l’Orfeo Taschellini da Castellaro, detto Orfeo il Manico o semplicemente Manico!
Consentitemi un ricordo personale: la prima volta che sentii il termine “manico” fu poco più di trent’anni fa, quando la mia ragazza di allora (ora moglie) tornò da una vacanza proprio in Liguria, durante la quale si sentiva chiedere dai coetanei in spiaggia se avesse o meno “il manico”. Archeologia, direte.
E infatti il protagonista del racconto – come l’Ulisse di Ovidio che sulla spiaggia “disegna” per Calipso i luoghi che furono – così riflette sull’incontro con una sua amica straniera:
«Qui è dove venivo da ragazzo, la sera», le ho detto dal terrazzo dell’albergo. L’avevo portata a conoscere Realdo, Verdeggia, eravamo entrati a Casa Balestra, a Molini di Triora, e poi a vedere da fuori la villa del patriota Giovanni Ruffini, i portici di Taggia, e tutte le cose della mia preistoria che riesumavo dolorosamente, come avrebbe potuto fare un archeologo dei miei giorni”.
Racconti di incontri
In effetti quelli di “Peninsulario” sono racconti di incontri: a volte tra un protagonista che ha diversi tratti autobiografici dell’autore (a pag. 90 viene menzionato il racconto “L’estate dopo Marengo” a cui sono particolarmente affezionato: è il libro che ha fatto incrociare la mia strada con quella di Magliani) e un personaggio “specchio” (in cui misurare lo scorrere del tempo) od “ostacolo” (scoglio contro cui s’infrangono i sogni), altre tra personaggi antitetici che però hanno – o finiscono per avere – molto in comune tra loro.
Per esempio Zanellu e Pantera, il primo sbirro sardo che ha un “problema”, il secondo “il transero per eccellenza” (ovvero trafficante di droga) che sorprendentemente pensa a Francesco Biamonti mentre lavora alla “soluzione”. Diversi e simili quanto la Francia e l’Italia. E il racconto è il viaggio avanti e indietro di questa strana coppia attraverso la frontiera, con Magliani accurato osservatore del rapporto che lega i due, attento a descrivere il progressivo spostamento dell’autorità da un piatto della bilancia all’altro.
Io non so dire se la Liguria abbia o meno una trama (si legga a pag. 86). So però che Magliani “gioca in casa, che conosce ogni sentiero, terrazza, zolla di asfalto, sputo di cemento di questo oggetto narrativo foscoliano che è la valle”. Anzi, le valli o “penisole” che sono le vere protagoniste di questo sorprendente “Peninsulario”, la cui prosa ha il “puro ritmo dettato dal paesaggio”.
Saul Stucchi
Marino Magliani
Peninsulario
Prefazione di Filippo Tuena
Italo Svevo
Collana Biblioteca di Letteratura Inutile
2022, 176 pagine
16 €