Prendetevi tutto il tempo che ci vuole. Mai come in questa occasione, infatti, il percorso espositivo è particolarmente intenso. La Fondazione MAST di Bologna presenta al pubblico i gioielli della sua collezione, squadernando oltre cinquecento (500!) immagini tra fotografie, album e video per la mostra “Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia”, curata da Isabella Seràgnoli e Urs Stahel. Tanta roba, ma meno di un decimo di quanto possiede.
Il materiale esposto è stato realizzato in oltre un secolo da più di duecento fotografi di tutto il mondo, alcuni dei quali rimasti anonimi, ma non per questo meno validi delle celebrità, ve ne renderete conto davanti ai rispettivi lavori. Basta però dare una rapida scorsa all’elenco delle firme presenti per comprendere che la mostra aperta lo scorso 10 febbraio (ci sarà tempo fino al 22 maggio per visitarla) è una sorta di manuale della fotografia industriale. Da Tina Modotti a Paola Agosti, da Thomas Struth (protagonista di una monografica nel 2019, “Nature & Politics”) a Don McCullin, da Richard Avedon a Gianni Berengo Gardin e Gabriele Basilico. Impossibile non citare almeno alcuni altri maestri, come Henri Cartier-Bresson, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Margaret Bourke-White e Dorothea Lange.

Dalla A alla W
Ben 53 sono i capitoli in cui si articola il percorso, disposti in ordine alfabetico, dalla A di Abandoned (Abbandonato) alla W di Water (Acqua) e Wealth (Salute), passando per Montage (Montaggio), Social Service, Train/Traffic e tanto altro. Questo alfabeto copre praticamente tutto il panorama organizzativo, sociale ed economico del mondo del lavoro.
Le foto selezionate sono disposte a piccoli gruppi: tra di loro e con quelle dei gruppi presenti nella stessa sala si stabiliscono rapporti di similitudine e contrasto che ogni visitatore interpreterà secondo la propria sensibilità.
Prenderò come esempio l’immagine che vedete qui sotto. Le foto sulla sinistra rappresentano il lavoro operaio. Ci sono scatti dei fotografi sovietici El Lissitzky (famoso soprattutto come pittore, autore dell’iconica opera – un manifesto del Costruttivismo – “Spezza i Bianchi con il Cuneo Rosso”), Anatoli Skurikhin (“Costruttori del comunismo”) e Arkadii Samojlovic Sajchet, ma anche un ritratto dell’Avvocato Gianni Agnelli mentre osserva i test automobilistici alla FIAT, opera di Erich Lessing.
Al “Membro del Komsomol alla ruota” di Sajchet sembra rispondere sulla parete di fronte il “Robot Kobian #1” del Laboratorio Takanishi dell’Università di Waseda a Tokyo, fotografato da Vincent Fournier: il passato e il futuro del lavoro.

A poca distanza sono esposte diverse foto di Brian Griffin: da una parte un’addetta al magazzino con le mani sporche di petrolio e un’addetta alla fonderia; dall’altra quattro uomini ai vertici delle società per cui lavorano. In mezzo quattro immagini di Jacqueline Hassink che rappresentano i mega tavoli di riunioni di consigli d’amministrazione del livello di Allianz e Generali.
Più poetiche le foto di Man Ray sul tema dell’elettricità, ma anche i distintivi del personale degli anni Quaranta e Cinquanta sono a modo loro commoventi. Impossibile non fermarsi davanti al grappolo di immagini dedicate al tema dell’emigrazione alla ricerca di lavoro. C’è qui una delle foto più celebri e riconoscibili di Dorothea Lange, “Madre migrante”, scattata nel 1936. Il collegamento con “Furore” di Steinbeck è immediato (e per me anche con lo spettacolo che dal romanzo ha tratto Massimo Popolizio).
Verso il baratro
Molte le immagini che colpiscono al cuore. Una delle più crude l’ha scattata Enrique Metinides ed è intitolata “Impiegato della compagnia telefonica messicana folgorato al km 13 della Carrettera Mexico-Toluca”. È una crocifissione laica davanti alla quale si sosta in raccoglimento. Il lavoro può uccidere. I casi quotidiani denunciano che troppo spesso uccide, anche nella nostra società super-evoluta, dove l’agricoltura è già in versione 4.0 (si vedano le foto di Henrik Spohler).
Il pozzo petrolifero che spruzza di “oro nero” gli addetti nella foto di Sebastião Salgado, sembra minacciare anche gli immacolati colli di camicia della pubblicità per Dombusch fotografati da Paul Wolff negli anni Trenta del secolo scorso, esposti lì accanto.
Le foto di automobili coinvolte in incidenti stradali fanno pensare a una celebre serie di Andy Warhol, mentre l’immagine pubblicitaria della nuova Mercedes-Benz W 140 Classe S (1993) è un’evidente citazione delle atmosfere di Edward Hopper. Come dire: arte e realtà, anche in questo caso, si influenzano a vicenda.

Tutti da leggere sono i testi dei pannelli di sala, come quello che racconta la serie “Buchi neri” di Sven Johne sulla Germania orientale svuotata, dismessa e svenduta alla parte occidentale che l’ha fagocitata. Fa da contraltare il lavoro di Frank Thiel “Città 7 / 12 (Berlino)” sulla nuova capitale tedesca, una rifondazione che scava nelle profondità, anche simboliche, della metropoli (vedete la gigantografia nell’immagine qui sopra, sulla destra).
I quattro minuti e mezzo del video di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier sulla discarica di Dandora, nei pressi della capitale del Kenya Nairobi, sembrano un viaggio all’inferno che ci aspetta. Se non invertiamo vigorosamente la rotta, il pianeta ha gli anni contati. E noi con esso, naturalmente.
Saul Stucchi
Didascalie:
- Dorothea Lange
Madre migrante, 1936 - Due sale della mostra
Un alfabeto visivo dell’industria,
del lavoro e della tecnologia
Informazioni sulla mostra
Dove
Fondazione MASTVia Speranza 42, Bologna
Quando
Dal 10 febbraio al 22 maggio 2022Orari e prezzi
Orari: da martedì a domenica 10.00 – 19.00Biglietti: ingresso gratuito