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11 Luglio 2024

Da Garzanti “Memorie di un kamikaze” di Kazuo Ōdachi

Racconto compatto, disciplinato – e come avrebbe potuto essere il contrario trattandosi dell’opera di un soldato? – ma il cui avvicinamento al climax ha l’andamento lento e implacabile di uno scalatore al petto di una montagna severa. Memorie di un kamikaze (Garzanti) è la storia di un soldato giapponese impegnato negli anni finali della Seconda guerra mondiale e destinato sorprendentemente a sopravvivere.

Il nome dell’uomo è Kazuo Ōdachi che solo all’età di 93 anni si è deciso con l’aiuto di due giornalisti a recuperare il filo di un’avventura sulla terra non ordinaria e a suo modo non priva di forti elementi seduttivi. Perché le interviste di Shigeru Ōta e Hiroyoshi Nishijima raccolte in un racconto unitario, dal passo romanzesco, riesce a persuaderci del fatto che i kamikaze non fossero necessariamente dei folli esaltati come appaiono nell’immaginario comune (di certo lo erano i capi, come sempre e ovunque, che non solo davano ordini che essi stessi si sarebbero ben guardati dall’eseguire volentieri, ma avevano adeguatamente fagocitato – ancora, come ovunque – le giovani menti dei ragazzi per via di propaganda).

Kazuo Ōdachi, Memorie di un kamikaze, Garzanti

Ōdachi ebbe il torto, si fa per dire, di nascere in una zona vicina alla base aerea di Tokorozawa, da cui fu facile per l’esercito giapponese, prossimo al collasso, prelevare ragazzini che contribuissero alla svolta che i generali ancora credevano di imporre a un conflitto già perso. Perché nel 1944 i giochi sono fatti.

Ōdachi l’anno prima (ne aveva 17) era entrato nel programma di addestramento detto Yokaren. Ancor prima, da bambino, l’ambiente che ebbe la ventura di vivere era già un segno destinale, e non poteva essere il pallone la sua passione, ma gli aerei. La strada era tracciata, la mappa della sua vita, pure.

Le scuole erano dure, militarizzate da subito, con tutto il corollario di angherie gratuite e soprusi che siamo abituati ad associare per esempio ai marines – in realtà, nell’educazione militare le varianti non sono mai troppo fantasiose, il fanatismo conosce solo gradi diversi di intensità, e nel Giappone a vocazione imperialista la misura era piuttosto alta: per un ragazzino del tempo, Hirohito era dio, e l’idea di sacrificargli la vita tutt’altro che eccentrica.

Un grado supplementare di perfidia (non sappiamo quanto diffuso in altri eserciti, passati e presenti) stava forse nel fatto che molti fra i pedagoghi di Ōdachi erano avventizi, erano cioè militari che avevano fallito nelle loro missioni, e che a un certo punto della carriera erano stati scartati: paradossale che fossero loro a rendergli la vita difficile, a punire e sanzionare gli allievi.

Ōdachi lo ripete spesso (ma il tono non è mai lagnoso), gli anni dell’addestramento non è riuscito a dimenticarli. Qualsiasi minuzia poteva costituire un pretesto per essere puniti. Vide molti compagni, futuri piloti, perire nel corso delle esercitazioni. Era già guerra, l’addestramento. E a Taiwan, nel ’44, da pilota di caccia che si gioca il proprio destino nei combattimenti in cielo alla “promozione” da kamikaze, il passo fu breve.

Il libro mostra bene le tortuose vie attraverso cui i comandi istigavano al suicidio, in nome di un sacrificio, quello per la patria, che allora come oggi è quasi sempre quello di chi la comanda. In un Paese poggiato su millenni di tradizione che non tollera il disonore, la vergogna, rifiutarsi non era possibile.

Gli Zero, i potenti mezzi dell’aviazione nipponica, per quanto celebrati, non erano all’altezza dei nuovi micidiali armamenti nemici. Il ragazzino è sveglio, non trova coincidenze fra quello che vede e quello che sente dire alla radio. E non è certo felice di sentire il suo nome quando per sette volte la sera prima dell’attacco è lui che viene scelto nella riunione della camerata. Ōdachi tuttavia avrà fortuna perché tutt’e sette le volte che partirà in missione gli americani non si faranno vedere.

Solo qualche anno fa, passati i 90, dopo una vita disciplinata dal kendo, ha deciso di raccontare la sua storia, che è storia di un Paese, storia di un lucido delirio cui però, e per questo il libro si fa leggere e bene, il tono giusto riesce a dare ragione di ciò che a prima vista ci apparirebbe assurdo.

In questo senso, Memorie di un kamikaze è letteratura, perché essa cerca la verità e quando l’avvicina rende tollerabile qualsiasi idea, qualsiasi traccia di realtà.

Michele Lupo

Kazuo Ōdachi
Memorie di un kamikaze
Traduzione di Motoko Tanaka
Garzanti
2024, 300 pagine
22 €

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