In una famosa intervista rilasciata a Gianni Minà nell’ormai lontano 1998, Eduardo Galeano si diceva sconfortato dal fatto che anche le persone fossero diventate merci, e – per assurdo che nel frattempo è diventato più cruento – che le prime potessero viaggiare con meno libertà delle seconde.
Perché ciò che maggiormente assorbiva le preoccupazioni dello scrittore sudamericano a proposito degli esiti del neocapitalismo riguardava più che l’aspetto economico, la crisi dei rapporti umani – penuria e bisogno di affetti, di legami, di abbracci.
In effetti, l’impegno intellettuale di Galeano contro il neoliberismo, l’opposizione agli atroci regimi sudamericani, da quello uruguaiano di provenienza a quello argentino, dal quale pure dovette fuggire in direzione dell’Europa, non gli impedivano di coltivare un gusto amabile, affettuoso della vita – giusto il titolo di questo Il libro degli abbracci, che ritorna ora in libreria con SUR, con una nuova traduzione di Francesco Gabrielli e la prefazione di Maurizio De Giovanni.
In 191 piccoli capitoli, secondo uno schema presente anche in altri libri, Galeano rapsodicamente dispiega ricordi, aneddoti, spunti ironici che incrociano grandi temi politici e minute lezioni morali.
Una disposizione per così dire empatica con il lettore, come se ne conoscesse non i segreti più intimi ma probabilmente quelli più riconoscibili, diffusi, condivisi, ha in parte determinato il successo di uno degli autori più letti di quella zona di mondo, lettore attento della storia drammatica di un continente vista nei suoi rapporti con l’Occidente, assoggettato alla sua ferocia colonialista, Le vene aperte dell’America Latina in particolare ne ha fatto un punto di riferimento per moltitudini di lettori.
La felicità/facilità di passare dal piccolo al grande, come in questo libro, dai gesti scarni di un contadino alle nequizie della dittatura militare, dagli apologhi stravaganti ai labirinti stolidi o oscuri della burocrazia, segna in Galeano un’inclinazione all’affabulazione divagante, che disegna in poche righe i destini di indios e soldati, dell’amicizia e del coraggio, o ancora di alcune grandi città del mondo, effigiate in fulminei reportage (Bogotà, Città del Messico, Buenos Aires, New York – ferocissima, va da sé).
Il Sud America per Galeano non è l’unico sud, ma soltanto quello che conosce meglio, l’orizzonte di mondo che gli è proprio, raramente non coincidente con quello degli oppressi. Quando scrive che “non succede niente, se non lo fa vedere la televisione”, le coordinate geografiche sono irrilevanti.
Ma come spesso accade agli esuli, le stoccate più perfide si riservano ai connazionali: “All’inizio del ventesimo secolo l’Uruguay era un paese del ventunesimo secolo. Alla fine del ventesimo secolo, l’Uruguay è un paese del diciannovesimo secolo (…) Gli uomini sognano di andare in pensione, le donne sognano di sposarsi”.
E poi Galeano, con il contributo dei disegni, incastona apologhi, frammenti narrativi e divagazioni esistenziali, non di rado sul tema amoroso. Con tono sornione – un po’ desueto di questi tempi, che sia un bene o un male ognuno decida per sé – Galeano si scopre facile preda della seduzione femminile, volentieri tradendo le premesse di una rigida educazione cattolica (meglio l’inferno del purgatorio, scrive, ”pieno di terribili turisti della classe media”).
“L’amore – scrive – è una malattia tra le più maligne e contagiose. Noi malati, chiunque ci può riconoscere. Le occhiaie profonde denunziano le nostre insonnie, notti debilitate dagli abbracci, o dalla mancanza di abbracci. Ci devastano febbri, e sentiamo un bisogno irresistibile di dire stupidaggini.” Desuetudini necessarie.
Michele Lupo
Eduardo Galeano
Il libro degli abbracci
SUR Edizioni
Traduzione di Fabrizio Gabrielli
Prefazione di Maurizio De Giovanni
2024, 300 pagine
18 €